Uno scenario di guerra ai confini di Gaza, durante la campagna militare nell’estate 2014; poche pagine più avanti, in una cella sotterranea nel deserto del Negev, un prigioniero e il suo custode in sorvegliata simbiosi, dentro uno spazio asettico e ipertecnologico. Poi indietro di dodici anni, una spia israeliana in pericolo si aggira per Parigi e si innamora di una cameriera. Appena oltre, con uno slittamento spaziale che lascia immutato il tempo, in uno yacht club sul lago Wannsee a Berlino, un uomo d’affari di Ramallah e un milionario canadese discutono, e l’uno dà all’altro lezioni di vela. Poi, di nuovo, un salto all’anno 2014: su un letto d’ospedale vicino Tel Aviv giace un robusto generale sospeso tra la vita e la morte, il suo corpo colossale attaccato alle macchine allucina la realtà rievocando, per sprazzi visionari, il proprio passato.

Un refuso umano
Così la sequenza di quadri, ritagliati con precisione adamantina, che il lettore si trova davanti percorrendo le prime pagine di Una cena al centro della terra, il nuovo romanzo di Nathan Englander nella traduzione, bella e precisa, di Silvia Pareschi (in uscita martedì, Einaudi, pp. 238, euro. Una diegesi per brevi capitoli alternati che deroga dalla linea del tempo, sbalzando chi legge da Israele agli Stati Uniti, attraverso la Francia, la Germania, Capri e il Mar Tirreno, in un continuo andirivieni dai primi anni Zero agli anni Dieci del Duemila. Sembrerebbe, inizialmente, un andamento rapsodico e frammentato se non emergesse, piano ma con evidenza, dietro il procedere per salti, una maglia narrativa coesa e densissima, dove spie in fuga e traffici internazionali si incrociano ai tragitti dell’esistenza individuale e alle rapaci incursioni della storia nella sua convulsa attualità.

Il prigioniero Z, «un refuso umano cancellato dal rigo», è rinchiuso da qualche parte nel deserto del Negev, la sua identità raschiata dalle liste anagrafiche per volere delle autorità: un orlo dell’esistenza facilmente accostabile al limbo del generale che da otto anni è relegato nello spazio liminale della coscienza minima, la mente ossessionata da barlumi di un passato di guerra e di inesorabilità.
Consegnato all’inerte, imbalsamata, quasi archetipica monumentalità del leader, il generale – mai chiamato per nome – ha la coincidenza spazio-temporale e i tratti somatici di Ariel Sharon. Le scene che appaiono nelle illuminazioni oniriche della sua coscienza e nelle parole degli altri su di lui mostrano, infatti, nessi evidenti con le stazioni della sua carriera militare e politica: la strage di Qibya in Cisgiordania, la campagna di Suez, la guerra dei Sei Giorni, la guerra del Kippur, l’eccidio dei campi profughi di Sabra e Shatila, la passeggiata sulla spianata delle moschee e l’innesco della seconda Intifada, il mandato governativo, il disimpegno da Gaza, l’attestarsi su posizioni più moderate, la malattia e il ritiro.

Nelle pagine di Englander, il generale è accudito e guardato a vista da Ruthi, devota assistente che ne esagera la statura mitica, fondendo la dimensione politica con quella religiosa, nell’attesa di un suo ritorno messianico affinché si completi il processo di pace. Oltre a funzionare come custode fedele del corpo-mausoleo del generale e a sorvegliarne la sacralità, Ruthi – in un gioco di rispondenze e nella studiata replica degli stessi moduli narrativi – è madre di un altro sorvegliante, il guardiano del carcere segreto dove il prigioniero Z consuma i suoi giorni indirizzando al generale, che lui non sa essere in coma, lettere per perorare la propria causa.

Una umbratile morte in vita accomuna i due personaggi. L’esistenza di Z, convinto che il generale sia ancora saldo al potere e pronto a prestargli ascolto, è ormai azzerata e senza nome, ma, poco alla volta, per accumulo di indizi e di traverso al procedere della storia, i frammenti del suo tragitto si compongono in un quadro sempre più nitido: l’infanzia osservante sulla costa orientale degli Stati Uniti, la luminosa giovinezza all’università sul monte Scopus a Gerusalemme, trascorsa a coltivare l’ideale di un futuro di pace per Israele.

Schegge centrifughe
Nel 2002, al culmine della seconda Intifada, Z. è già in Germania sotto copertura, agente segreto dei servizi israeliani coinvolto in un piano per incastrare il facoltoso Farid che, sulle placide sponde del Wannsee sogna una Gerusalemme riunita sotto la bandiera di Hamas, e costruisce ardite simmetrie con la Berlino del dopo-1989. Con i proventi della sua attività di import-export e delle sue partecipazioni societarie, Farid finanzia il fratello combattente e gli altri guerriglieri di Gaza, contribuendo così alla lotta palestinese.
Le informazioni che, per vie traverse, Z. ottiene da Farid scatenano una rappresaglia israeliana che si traduce in un massacro di civili, dove muoiono molti bambini. L’uccisione porterà Z., ansioso di espiare la sua colpa, a cambiare campo, tradendo la causa e lavorando segretamente contro il proprio paese.

Il secondo romanzo di Englander riunisce le schegge centrifughe di una narrazione insieme estrosa e serissima, in una catena di rispecchiamenti e di corrispondenze, di storie che fanno eco ad altre storie, dove tutto è sempre sul punto di rovesciarsi nel suo contrario. Una girandola di tradimenti, doppi giochi, falsi nomi, cambi di identità, cospirazioni internazionali in cui è più che mai difficile capire quale sia il lato giusto delle cose e dove risieda, sempre ammesso che ci sia, il vero. Proprio in questa indecidibilità, il libro di Englander scarta dai binari consolidati della spy story e del thriller a sfondo politico.

Ci sono, certo, riprese dalla letteratura di spionaggio mainstream, un’arte combinatoria che, come un postmoderno pastiche, gioca con le costanti di genere e le assortisce nel continuo rimbalzo di tempi e situazioni; ma non c’è, in Una cena al centro della terra, solo il gioco consapevole con la tradizione letteraria tipico della logora stagione postmoderna.

Il confronto con la Storia
Englander scaglia in faccia al lettore reiterati interrogativi etici, e mettendo la sua lente narrativa su brevi momenti e piccole costellazioni affettive tanto intense quanto incerte, porta il lettore a un confronto serrato e inesorabile con la storia più recente e più lontana, con i suoi capovolgimenti di senso, il ruolo alterno di vittime e carnefici, le sempre mutevoli assiologie nel gioco politico delle parti tra oriente e occidente, in una concrezione simbolica che recupera elementi del postmoderno per poi traslarli verso una cruda disamina del tempo presente.

Proprio in questo senso per esempio, difficilmente casuale è la scelta dell’ambientazione nella villa sul lago Wannsee, che Englander rende teatro di gite in catamarano e ricchi brunch, mentre nella mente del lettore si stagliano i plumbei scenari novecenteschi del 20 gennaio 1942, quando quelle stesse rive del lago ospitarono gli alti ufficiali nazisti riuniti per decidere la soluzione finale della questione ebraica.