Ci sono voluti quattro giorni all’oligarchia honduregna per ribaltare l’esito delle urne. Che la vittoria del presidente Juan Orlando Hernández fosse del resto già stata scritta si era iniziato a capirlo dal ritardo di dieci ore con cui il Tribunale Supremo Elettorale aveva annunciato i primi dati ufficiali, che con il 57% dei seggi scrutinati davano in vantaggio per 5 punti Salvador Nasralla, il candidato dell’Alleanza di opposizione contro la dittatura.

E se n’è avuta presto la certezza già con l’annuncio del presidente del Tse David Matamoros che i risultati finali sarebbero stati disponibili solo ieri, a causa del tempo impiegato dai camion dell’esercito per tornare nella capitale con le casse dei verbali dei seggi provenienti dall’interno del Paese, quelli cioè che non sarebbe stato possibile trasmettere elettronicamente dai centri di votazione. «Il ritardo ha una causa molto chiara: la mancanza di indipendenza del Tse», aveva subito denunciato il gesuita Ismael Moreno dell’Equipo de Reflexión, Investigación y Comunicación.

È stato solo mercoledì che – non senza una tempestiva interruzione di cinque ore del sistema telematico – i dati, sia pure con il contagocce, hanno ricominciato a essere trasmessi, indicando magicamente prima la rimonta, poi il sorpasso e infine il consolidamento del vantaggio di Hernández (42,69% contro 41,60%). Non rimane che attendere nelle prossime ore l’annuncio finale della vittoria del presidente.

Non riconosce ovviamente i risultati Salvador Nasralla, che, oltre a esigere una spiegazione delle frequenti cadute del server, ha chiesto di controllare «i 5.174 verbali introdotti nel sistema senza essere stati trasmessi tramite scannerizzazione dai centri di votazione» e inviati, oltre che al Tse, anche ai partiti e, incredibile ma vero, all’ambasciata degli Stati uniti a Tegucigalpa.

E mentre esplodono le proteste dei manifestanti per le strade, anche Manuel Zelaya, il presidente rovesciato nel 2009 e oggi coordinatore dell’Alleanza di opposizione contro la dittatura, chiede un nuovo conteggio «pubblico, alla presenza delle parti interessate, degli osservatori, della società civile, degli organismi internazionali».

Ma se una conferma indiretta dei brogli è venuta anche dal magistrato supplente del Tse, Marco Ramiro Lobo – che, dopo aver definito «irreversibile» il vantaggio di 5 punti di Nasralla, ha anche giudicato sospette le interruzioni del sistema telematico – ben poco è lecito attendersi dalla presenza degli osservatori che, tra esortazioni generiche al Tse ad agire con celerità e trasparenza e raccomandazioni alla prudenza e alla responsabilità rivolte ai candidati, non servirà che a legittimare un processo viziato dalle frodi, esattamente come avvenuto nel 2013.

Tanto più che la missione dell’Oea, guidata dall’ex presidente boliviano Jorge Quiroga, ha già avuto modo di «lamentare» il rifiuto di Nasralla di riconoscere l’esito delle elezioni.

L’oligarchia honduregna può dormire sonni tranquilli. Se, dopo il golpe del 2009 – il primo vincente assaggio di una nuova tipologia di colpi di Stato – i responsabili hanno potuto riacquistare rapidamente legittimità internazionale (ottenendo la riammissione nell’Oea) senza altri costi aggiuntivi che quello di consentire il rientro nel Paese del destituito e non più temibile Zelaya, mandato in esilio nella Repubblica Dominicana, oggi appare del tutto improbabile che la comunità internazionale decida di intervenire in maniera drastica di fronte ad accuse di brogli.

Mandando così un messaggio preciso alle oligarchie latinoamericane (prontamente colto prima in Paraguay e poi in Brasile): il golpe paga sempre perché, passata la tempesta iniziale, sempre più simile a un acquazzone con il ripetersi dei casi, i protagonisti del colpo di Stato – anziché finire in galera – potranno riconquistare il potere e tenerselo stretto a colpi di brogli elettorali.