Balere, discoteche, dancing, feste private, feste pubbliche, il ballo ha sempre caratterizzato l’estate. Ora che non si può danzare come prima, se ne sente acuta la mancanza. Quel tempo tornerà. Quel tempo, con tutto il suo bagaglio di energia, follie ed esperienze, è ripercorso nel ricordo personale che Mariangela Mianiti traccia in quattro racconti. Dal valzer imparato con il padre, dai compagni di danza all’incontro della vita, è un viaggio nell’educazione sentimentale che il ballo sa regalare, soprattutto ai generosi di sé.

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Il ritmo parte, cresce, incalza. I piedi fremono, lo sguardo si accende, il sorriso si allarga, la pista è lì, a portata di gambe, la musica chiama, lo sguardo cerca intese, le trova. Andiamo? Andiamo. E allora via, a ballare e ballare e ancora ballare finché il fiato resiste perché un corpo che balla è un corpo felice. Quando sento suonare una danza fatico a stare ferma o seduta perché è come se le membra fossero chiamate da qualcosa che arriva da molto lontano e da molto prima di me. Non sono io a possedere il ballo, è il ballo che possiede me.

IL MIO MENTORE dei primi passi di danza è stato mio padre, grande ballerino di valzer e mazurche. È stato con lui che ho conosciuto le prime balere, quelle della Bassa che funzionano solo d’estate e che nella mia infanzia sono legate alle sagre di paese e alle feste dell’Unità, sempre all’aperto, su un campo, un prato o in un parco, frequentate soprattutto da contadini e operai. Arrivavi e già da un chilometro capivi dov’era la festa. Per prima sentivi la musica, sempre di un’orchestra di liscio, poi avvertivi il mormorio delle voci e infine vedevi un pulviscolo di luci, umidità, zanzare, moscerini e fumo di torta fritta. Infine, là sulla pista di assi di legno installata sotto il palco dei suonatori sudati, si muoveva il carnaio felice dei ballerini. Da vicino la scena si divideva in due: sulle tavole di legno quelli che ballavano, sul prato tutt’attorno e seduti su sedie pieghevoli stavano quelli che guardavano gli altri ballare.

L’agire e l’osservare l’altrui agire è una pratica che nelle balere è più evidente che altrove perché lì la divisione fra i due mondi è plastica, immediatamente visibile. Chi osserva, però, non sempre è qualcuno che non vuole entrare nel gioco per timidezza, imperizia o disinteresse, anzi spesso lo fa per studiare la situazione, osservare i danzatori e, se si è uomini, scegliere la ballerina da invitare e qui entra in azione una delle pratiche più consolidate del rapporto maschio/femmina, ovvero che sta a lui chiedere, a lei aspettare e poi acconsentire o negarsi. Il contrario, all’epoca, sarebbe stato considerato altamente inopportuno e comunque lì, nelle balere della Bassa, a nessun uomo sarebbe venuto in mente di invitare una moglie che stava roteando con il proprio marito a meno che non fossero già in rapporti di conoscenza o amicizia. Tuttavia, siccome non tutte le coppie erano in sintonia in fatto di danze, molti mariti o mogli imbranate concedevano volentieri al consorte la possibilità di danzare con altri, tanto sotto gli occhi di tutti non sarebbe accaduto nulla di sconveniente. La balera, dunque, consentiva un rimescolamento di fiati e abbracci che, se fosse avvenuto fra un paio di lenzuola, avrebbe provocato sfracelli, mentre lì era ben accolto dal comune sentire perché mica si può far restare seduta una danzerina provetta che si ritrova con un marito pestone, o viceversa.

I ballerini erano di tutti i tipi. Certi vecchi avevano la schiena avvitata come una vite tranne poi muovere le gambe, spesso storte come un arco di trionfo, non dico come Don Lurio, ma quasi. Sembravano sdoppiati, la parte di sopra piegata dai lavori di campagna, quella di sotto in fuga dalle fatiche. Erano quelli che avevano visto da vicino due guerre, una dittatura, la mezzadria arcigna e avevano una tal voglia di vivere che avrebbero ballato anche con dieci ernie al disco.

MOLTI, più giovani, erano stretti in camicie bianche a righine blu e rosse troppo aderenti per le loro pance importanti e sudavano, sudavano, grondavano rivoloni di acqua giù dalle teste, dalle tempie stempiate, sul collo taurino, sulla schiena che svelava le spalline della canottiera a costine, ma guai a fermarsi o perdersi un ballo. Me li immaginavo alzarsi la mattina alle quattro per mungere le mucche, spalare letame, poi arare la terra, seminarla, tagliare il fieno, raccogliere barbabietole, pomodori, meloni, melica, su e giù dai trattori dall’alba al tramonto tutta la settimana, contenti degli affari che andavano bene e poi, il sabato sera, la camicia nuova, un po’ di acqua di colonia e via a divertirsi.

ALTRI AVEVANO la ballata meditativa: postura fissa, spalle ferme, lo sguardo verso l’orizzonte, il mento un poco rialzato, il busto lievemente piegato in avanti, magri steccosi, vagavano per la pista senza agitarsi e ballavano più o meno tutto uguale, che fosse un tango, una polka, un valzer o una mazurca. Non sorridevano né ridevano mai, al massimo alzavano un angolo della bocca. Questi erano i taccagni, quelli che contavano i centesimi nel borsellino della moglie, se ce l’avevano, o che a 50 anni vivevano ancora con la madre, anche lei magra come un chiodo, e il cui massimo gaudium vitae era l’accumulazione del gruzzolo.
Lo spettacolo più bello erano le donne che all’epoca lavoravano soprattutto in casa, quindi madri di numerosa prole, lavoratrici di campi, mogli di operai. I loro figli già adulti avevano cominciato a disdegnare la balera a cui preferivano le nascenti e più moderne discoteche, ragion per cui lì si incrociavano soprattutto anziani, adulti maturi e bambini. Ognuna si preparava alla balera con cura perché la sera della festa era una cosa seria e mai vi si sarebbero presentate con abiti qualunque o sciatti. Quelli li indossavano già tutti i giorni. Far coincidere il gusto e il senso dell’eleganza con il corpo che ci si ritrovava dopo tutti quei figli e quel gran lavorare non era tuttavia cosa da poco, ragion per cui i risultati erano spesso una fiera di creatività piuttosto ruspante.
C’erano le sempre magre nonostante quattro gravidanze che mettevano in evidenza vitini sottili con tubini su misura e a fiori giganti, le festaiole che amavano riempirsi di colori sgargianti anche se erano più larghe che lunghe, le orgogliose del decolleté che erano tutta una balconata e orecchini sberluccicanti, le legnose che traballavano su tacchi a cui non erano abituate, le imitatrici di Moira Orfei con cotonature iperboliche, quelle che amavano lo sfarfallìo malandrino di gonne a ruota o plissé, le timide da sottana e camicetta, le nostalgiche del matrimonio che lo avevano riciclato in vestito da ballo e quindi erano un trionfo di ruche e festoni. Nessuna indossava mai lo stesso vestito per due feste di seguito. Poi c’eravamo noi bambine condannate anche in estate ai calzettoni di cotone bianco, una tortura se balli perché dopo un po’ ce n’è sempre uno che cala alla caviglia.

MIO PADRE, che non voleva sfigurare in pubblico, mi aveva insegnato i primi passi nel cortile di casa che era di terra e ghiaietta, il fondo non ideale per scivolare come libellule. Dischi non ce n’erano, per cui la musica la faceva lui canticchiando. Avevo sette o otto anni. Cominciò con l’un due tre dei passi del valzer, lui guidava, io seguivo. Mi piacque all’istante quel girare in tondo senza fermarsi, sentire la gonna che vola, l’aria che diventa ventosa attorno al corpo, i piedi che da soli seguono il ritmo, la leggera pressione della mano di mio padre sulla schiena che fa capire le soste e il cambio di giro. Io e lui non parlavamo molto, anzi non parlavamo per niente, però sul valzer ci intendemmo all’istante e lui ne fu fiero, sorrideva di un sorriso felice. Quando andavamo alle feste, ora anche lui aveva qualcuno in famiglia con cui ballare perché con mia madre non s’è mai inteso. Lei amava solo il tango, ma ha sempre detto che con lui non era capace perché trasformava tutto in valzer per cui preferiva stare seduta mentre lui si divertiva con questa e con quella. A lui piacevano le ballerine magre e leggere che sanno seguire e le conosceva tutte. Ogni tanto ne invitava qualcuna che non gli piaceva per dovere dei buoni rapporti, ma tornava dopo una danza con una scusa dicendo, sottovoce a me a e a mia madre: «Che sudèda. L’è pesanta cme an carro di buoi».

Negli ultimi anni, quando ormai i suoi polmoni non reggevano più, si sforzò fino allo spasimo di fare un ultimo giro all’ultima festa a cui andammo insieme. Fece tre passi, ma l’enfisema fu più forte del suo desiderio. Lo guardai tornare sconsolato al tavolo. Si sedette e mi disse, come scusandosi: «Am dispiès abòta. Ag la faccio più». E si rimise nel naso il cannino dell’ossigeno.

1.continua