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In principio fu l’invidia

In principio fu l’invidia

Storia Un libro di Gotz Aly titolato «Perché i tedeschi, perché gli ebrei?» rimuove il pregiudizio per cui il nazionalsocialismo sarebbe il frutto di un incomprensibile passo falso della storia tedesca

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 12 maggio 2013

Quanto conta l’invidia nella condotta degli esseri umani e, più in generale, nei processi storici? Il risentimento, quello che deriva dal senso di perdita della prospettiva futura, dalla subordinazione al timore per ciò che potrà accadere, in quale misura diventa rilevante nel causare catastrofi collettive? Götz Aly, con il suo ultimo libro, ci introduce a un ampio repertorio di temi culturali e di motivi sociali sulle radici e sulla pervasività dell’odio antisemita in Germania. L’autore è un noto saggista, conosciuto sia come docente al Fritz Bauer Institut di Francoforte che per la sua attività giornalistica. In Italia era stato già pubblicato un suo volume, dedicato allo Stato sociale di Hitler (Einaudi, 2007), che si era concentrato sul consenso al regime nazista, sulla complicità collettiva, sulla compiacenza dei più riguardo ai processi di spoliazione e di distruzione delle comunità ebraiche europee. Ne era uscito un testo, oggetto di molte discussioni, dove Aly aveva riflettuto sul versante delle molteplici reciprocità e dei tanti scambi di interesse che tra il sistema di potere hitleriano e la popolazione tedesca si erano venuti costituendo nel corso dei dodici anni di dittatura.

L’annientamento dell’ebraismo e l’impoverimento dell’Europa, assoggettati al dominio tedesco, venivano quindi letti come variabili dipendenti del bisogno di mantenere e alimentare un circuito permanente di consenso tra élite e governati. Pur evitando facili scorciatoie, Aly interpretava il saccheggio perpetrato tra il 1939 e il 1945 soprattutto come il risultato di un preciso calcolo politico, alla base delle scelte compiute da Hitler e dalla sua camarilla di potere. La consapevolezza delle debolezze del «fronte interno», composto dalla popolazione civile, avrebbero potuto causare il cedimento dell’assenso collettivo nei confronti della politica imperialista e dell’impresa bellica. L’una e l’altra, poi, erano lette come il prodotto di una radicalizzazione sempre più accentuata che occorreva al regime per puntellarsi e garantirsi un adeguato seguito tra i tedeschi.
Con la nuova opera a disposizione del lettore italiano, Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? Uguaglianza, invidia e odio razziale, 1800-1933 (Einaudi, traduzione di Valentina Tortelli, pp. 277, e 32,00), l’autore compie un passo indietro, rispetto all’arco di tempo considerato nel volume precedente. Il libro si articola in sette capitoli, molto densi, preceduti da una «domanda delle domande», quella che dà il titolo al libro, ossia com’è stato possibile che «un popolo civile e culturalmente così ricco e produttivo» abbia liberato «una simile energia criminosa?».
Il tentativo di ragionare sull’origine della politica di genocidio nazista costituisce di per sé un piano inclinato, tanto invitante quanto scivoloso, a rischio di luoghi comuni e di banalizzazioni. Dunque, il fuoco della scrittura si concentra piuttosto sulle peculiarità dei processi di elaborazione dell’identità nazionale, sui meccanismi di costruzione della coesione sociale e sui processi di stratificazione socioeconomica in società, come quella tedesca, dove una accelerata modernizzazione, a cavallo tra due secoli, aveva creato molte aspettative ma infranto un numero non minore di sicurezze.

Götz Aly tesse un complesso panorama culturale sulla base di un trittico, dove la mobilità sociale, la competizione e l’invidia sono gli elementi di riferimento per ragionare sul problema della difficile integrazione culturale di fronte all’intenso sviluppo socio-economico. In questa chiave, laddove al tempi lunghi della trasformazione si sostituisce il mutamento dettato dall’evoluzione capitalistica, l’antisemitismo assume una veste nuova, di ideologia passe-partout, capace di dare senso e sintesi, quindi false sicurezze di giudizio, a quei molti che si sentono emarginati nella competizione sociale. È come un tonico, che offre consolazione dinanzi all’incomprensibilità dei tempi correnti.
Gli ebrei sarebbero i responsabili di tutte le discrasie. Lottare contro di loro, quindi, vuole dire adoperarsi per salvare se stessi. La tesi, abbondantemente articolata e argomentata dall’autore con dovizia di richiami e esempi, non è nuova. Offre, peraltro, un elevato grado di verosimiglianza e plausibilità, soprattutto se viene messa alla prova non solo per definire i caratteri della destra radicale ma anche di una parte non secondaria della sinistra tedesca. Aly non evita di impegnarsi in questa direzione, e è questo uno dei meriti maggiori del suo libro. A più riprese, infatti, registra la natura di falso progressismo che il discorso antisemita porta con sé, soprattutto quando disconosce la radice conflittuale della società per sostituirle l’idea che si debba tornare a una armonia dell’ordine sociale, che sarebbe stata compromessa dal capitalismo finanziario di matrice giudaica. Se l’humus era questo, va da sé, quindi, che il partito nazionalsocialista poteva solo raccogliere quello che già era stato seminato in un secolo di discussioni e diatribe, per poi capitalizzarlo a proprio favore. E che la Nsdap di Hitler non abbia inventato nulla ma semmai manipolato quanto era stato depositato nel senso comune dai suoi antesignani, fra cui la Deutschsoziale Partei e la Lega Pangermanista, è altrettanto risaputo. Da questo punto di vista il transito da un discorso sul «proletariato privato di diritto al popolo tedesco delegittimato e minacciato», ossia dalla classe alla nazione razzizzata, è l’anello di saldatura tra nazionalismo e socialismo.

L’etnicizzazione della lotta sociale, segnala Aly, risponde alla incertezze identitarie di una collettività che fatica a definire i suoi confini non solo geografici ma anche culturali. Il fantasma dell’espropriazione di sé, che deriva dalla presenza, nel corpo «sano» della nazione tedesca, di un soggetto estraneo, perturbatore, qual è il capitalismo giudaico, attraversa gli incubi di tutti i nazionalisti. E si estende, sottolinea l’autore, a un ampio complesso di forze politiche: quelle che si erano assunte l’incarico di mirare a una società in forte trasformazione. È qui, infatti, che il tema del risentimento entra prepotentemente in gioco, stabilendo un metro con il quale misurare le ansie,inappagate, di promozione sociale. Gli ebrei ne diventano da subito i destinatari, rappresentandone il reciproco inverso: alla loro integrazione i nazionalisti fanno corrispondere la presunta emarginazione dei «tedeschi etnici». Se c’è un merito nelle diverse ricerche di Götz Aly è quello di avere insistito sulla natura di strumento di promozione sociale del nazionalsocialismo in una società, quella tedesca, drammaticamente bloccata dopo le crisi del 1923 e del 1929.

Non si capisce la fortuna di Hitler se non si coglie l’appello che seppe lanciare al sogno infranto di mobilità sociale, trasformandolo in un bisogno di mobilitazione collettiva. Di questo consiste la peculiarità della via nazista alla «nazionalizzazione delle masse», all’interno di un involucro superautoritario, ma anche di echi socialisticheggianti, dove il lavoro della «comunità nazionale di popolo» viene presentato come antagonista al capitale commerciale e di «usura». Sono considerazioni che si inseriscono, proseguendolo, in lavoro di scavo che, per un autore tedesco qual è Aly, già militante nel ’68, suona anche come una ultima, definitiva resa dei conti con la generazione dei padri.

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