Carlo Azeglio Ciampi fu, forse più di altri, il presidente che si spese per difendere il pluralismo dell’informazione in un paese che aveva appena subito l’avvento al potere del principale proprietario di televisioni private, proprio nel momento in cui questo occupava anche il versante pubblico della tv. Furono anni difficili, sotto questo aspetto, quelli di Ciampi dal 2001 al 2006, e la qualità nuova dei rapporti squilibrati instauratasi nel mondo dei media gli fu immediatamente chiarissima.

Il presidente Ciampi, già a luglio del 2002, all’indomani dell’elezione di un nuovo Cda Rai in mano alla destra, in un messaggio inviato alle Camere si dichiarava allarmato per l’equilibrio del sistema comunicativo e sottolineava l’urgenza di metter mano ad una legge di riforma. Un messaggio alle Camere in qualche modo ‘storico’ che rimarcava, per la prima volta con l’autorevolezza della carica, la gravità di una ‘questione’ che negli ultimi anni era diventata quasi marginale, anche per colpa dell’ignavia del centrosinistra, percepita com’era quasi come un tema specialistico o per dibattiti accademici.

Lo faceva con parole pesanti, mai passate di moda e che oggi giova ricordare. Per Ciampi infatti «il pluralismo e l’imparzialità dell’informazione non potranno essere conseguenza automatica del progresso tecnologico»; il Presidente affermava che era necessario far rispettare le indicazioni della Corte Costituzionale che si era espressa per l’invio sul satellite di Retequattro (entro il 31 dicembre del 2003), ed invocava al più presto «l’emanazione di una legge di sistema» che regolasse tutto il comparto dei media. Occorreva, ancora, estendere la vigilanza parlamentare all’intero circuito pubblico-privato, proprio «allo scopo di rendere omogeneo il principio della par condicio». “Pluralismo e imparzialità” ritornavano ricorrenti nel suo allarme, Ciampi le pronunciava più volte e più di tutte le altre nella sua allocuzione.

Purtroppo l’appello, oltre ad essere, com’era prevedibile, snobbato dalla destra, che poco più di un mese dopo rendeva pubblico il testo di un ddl sulla tv che andava in tutt’altra direzione (la legge Gasparri), veniva sottovalutato anche da un centrosinistra incline a «trattare sottobanco qualche nomina (di solito infelice e mediocre)» piuttosto che a decidere di «organizzare intorno al problema la stessa passione democratica» che si andava manifestando sul tema della giustizia, come scriveva in quei giorni Miriam Mafai su Repubblica.

Ciampi si trovò ad attraversare uno dei momenti più difficili e turbolenti della storia repubblicana: lo strapotere di Berlusconi e il suo uso strumentale di televisioni pubbliche e private, la crisi di ‘governance’ della Rai presto rimasta con due consiglieri, le sentenze della suprema Corte inevase ed aggirate, la necessità di una normazione che quando arrivò smentì sonoramente quelle esigenze che il presidente aveva invocato nel suo messaggio al Parlamento.

Si battè fino all’ultimo nel tentativo di difendere il paese da una concentrazione mediatica unica nel mondo democratico, anche con il rinvio alle Camere nel dicembre del 2003 di quella legge Gasparri che condonava di fatto gli abusi dell’etere del Cavaliere. Che però dopo 4 mesi fu approvata ugualmente, dopo che il centrosinistra aveva sprecato l’occasione (febbraio 2004) di bocciarla alla Camera per incostituzionalità, per via dell’assenza di 29 parlamentari dell’Ulivo, che uniti ai 40 franchi tiratori del centrodestra, avrebbero forse potuto cambiare la storia degli ultimi anni.

Il tema del pluralismo lo vide in primissima linea, come quando ancora nel gennaio del 2006, poche settimane prima delle elezioni, di fronte a un Berlusconi che straripava, alzava nuovamente con forza la sua voce. Una lezione da ricordare ancora oggi.