Nell’ottobre del 2014 si era da poco cominciato a leggere sui giornali dei massacri in Iraq compiuti dall’autoproclamato Stato Islamico, e dello sbando in cui si trovava l’esercito iracheno addestrato e armato dagli americani, mentre Obama rendeva chiara l’intenzione degli Stati uniti di non essere più coinvolti in un conflitto in quel paese. La resistenza, dunque, era condotta da gruppi paramilitari sciiti che avevano risposto alla fatwa e conseguente chiamata alle armi contro l’Isis da parte del loro leader spirituale Ali al-Sistani.
È a uno di questi gruppi che si unisce quell’autunno il regista iraniano Majed Neisi, che nel documentario The Black Flag – evento speciale al Festival dei Popoli – segue i miliziani nella loro guerra in prima linea per la liberazione di Jorf al-Sakhar, 60 km a sud di Baghdad. Il nemico è vicino, vicinissimo, anche se non si vede mai: in battaglia le pallottole fischiano a pochi centimetri dalla macchina da presa, in trincea i razzi si abbattono continuamente tutto intorno all’accampamento dei miliziani. Neisi vive con loro e con loro rischia la vita per raccontare la resistenza all’Isis. Per i soldati è una guerra santa, i caduti sono martiri, quando la città viene finalmente liberata e la bandiera nera dell’Isis ammainata uno di loro urla di non calpestarla, perché là sopra sta scritto il nome del Profeta. «C’è ancora tanto da fare», dice il regista alla macchina da presa in chiusura del film. Parla del suo documentario, e ovviamente non solo di quello. E oggi quelle parole suonano quanto mai significative.

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Quando ha deciso di girare questo film?

Poco dopo l’invasione dell’Isis in Iraq, per via di una serie di immagini che mi hanno molto colpito di stragi e decapitazioni sulla pubblica piazza. In quei primi giorni di assedio l’esercito iracheno non era in buone condizioni, e non c’era ancora una resistenza organizzata. Ho fatto di tutto per trovare un gruppo al quale unirmi per documentare la battaglia.
La particolarità di «The Black Flag» è che rappresenta l’opposizione all’Isis da parte di un gruppo spinto da una motivazione religiosa, da una fatwa. È una jihad contro un’altra jihad.
Se non fosse stata pronunciata questa fatwa, questo richiamo alla jihad, l’Iraq non esisterebbe più come entità nazionale. In un contesto tradizionale e religioso di quel tipo spesso è proprio la religione ad «occuparsi» dei diritti dei cittadini, ad aiutarli. E così la fatwa è servita ad evitare che tutti fuggissero, e a radunare gli uomini che hanno dato inizio alla resistenza.

Come ha lavorato sul campo? 

Fin dall’inizio la mia intenzione era di vivere insieme a questi uomini per poter catturare in immagini la loro vita e la loro guerra, qualunque fosse stato l’esito. La mia priorità era riuscire a non attirare l’attenzione, diventare uno di loro. E l’unico modo per essere «invisibile» era proprio vivere costantemente insieme a loro, notte e giorno, senza mai lasciare il campo, con la stessa quantità di polvere addosso e la stessa stanchezza nel volto.

I miliziani sembrano aver riconosciuto l’importanza di quello che stava facendo se alcuni di loro in certi momenti hanno addirittura girato al suo posto.

Piuttosto che una comprensione dell’importanza del mio lavoro, c’era un fortissimo legame di amicizia tra di noi. Si trattava di un aiuto reciproco. Ogni volta che si andava in battaglia davo ad alcuni di loro una Go-Pro, fondamentalmente per abituarli all’idea di essere ripresi, alla presenza della camera, così che diventasse normale. Sono stati vari miliziani a riprendere le scene finali del film in cui viene liberata Jorf al-Sakhar. In particolare la sequenza della bandiera, girata da un soldato a cui avevo dato uno smartphone.

Cosa ne pensa dell’eventualità di un prossimo intervento militare massiccio da parte dei paesi occidentali?

Vorrei fare io una domanda: dov’era l’Occidente per tutto questo tempo, in questo anno di massacri orribili in Iraq, quando si sapeva esattamente cosa stava succedendo e per quali motivi? E come mai si sta pensando solo adesso di sferrare un forte attacco? È vero che Stati come quello iracheno sono molto deboli e hanno bisogno di aiuto, ma l’esperienza di questi ultimi 15 anni in Iraq come in Afghanistan insegna che il vero errore che l’Occidente continua a ripetere è di sferrare attacchi con un intento – portare la democrazia – che però non diventa realtà, e semmai peggiora solamente la situazione. Se immaginiamo che i paesi occidentali riescano a rimuovere l’Isis come hanno già fatto con Saddam Hussein e tanti altri, cosa ci garantisce che l’indomani non si crei un altro gruppo simile? E la conseguenza di questi attacchi continui è che il livello culturale, in questo caso dell’Iraq, continua a scendere, la base culturale è continuamente minata. Così si creano le condizione giuste per la nascita degli estremismi.

È quindi una questione che andrebbe risolta in seno al mondo arabo e mediorientale?

Militarmente non sarebbe possibile. Ma il vero problema è che l’Isis esiste nelle teste delle persone. La loro è una guerra contro l’umanità, a cui chiunque possa deve opporre una resistenza. Ma il lavoro va svolto su molti piani diversi: intellettuale, culturale, sociale, economico. Solo un attacco militare non può cambiare le menti delle persone.