Sono ancora in Italia. Le frontiere sono aperte, ci sono anche dei voli attivi (se non li cancellano il giorno prima per carenza di turisti), ma visto che in Polonia la gestione politica del COVID-19 è discutibile, me ne sto nella mia campagna sperduta, aspettando tempi migliori.

E sarà difficile vederli arrivare, almeno per la Polonia. Alla fine, dopo il cambio del candidato dell’opposizione (al posto di Małgorzata Kidawa-Błońska che ha dovuto fare conti con l’emergenza sanitaria, la cui campagna elettorale è stata vanificata dallo spostamento della data delle elezioni, è subentrato Rafał Trzaskowski, sindaco di Varsavia), dopo la più brutta campagna elettorale di sempre che ha visto l’aiuto spudorato e tragicomico da parte della televisione statale (dalla totale violazione della par condicio alla creazione di personaggi famosi fittizi sostenitori di Duda) e della Chiesa (incluse le omelie pronunciate dagli stessi politici) ha vinto il presidente Duda. Ha vinto perché ha deciso di puntare contro un solo nemico, sfruttando in un modo abominevole la paura dell’ignoto dovuta purtroppo all’ignoranza di molti polacchi: le cosiddette ideologie gender e LGBT. Le ha paragonate al bolscevismo, senza prendere le distanze dalle parole del suo collega di partito, il quale sosteneva che le persone LGBT+ non siano persone normali, scatenando così un’ondata di proteste e denunce alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il 12 luglio durante la notte elettorale, all’annuncio dei risultati degli exit-poll, Duda, sfoggiando un sorriso ebete e una sfacciataggine magistrale, si è scusato con chi si sarebbe potuto sentire offeso durante la campagna elettorale e gli ultimi 5 anni della sua presidenza. Dopo 5 anni di silenzio si è espressa anche sua moglie, Agata Duda, dipingendosi come vittima degli attacchi dei giornalisti dei media privati. Come se non bastasse, dal nulla è apparsa sua figlia, Kinga, che non si è fatta sentire mai durante la campagna elettorale né negli ultimi 5 anni, dicendo che in Polonia nessuno dovrebbe aver paura di uscire di casa, poiché il colore della pelle, la religione, l’orientamento sessuale non importano e tutti meritiamo rispetto.

Meglio non credere ai loro slogan di oggi come “bisogna restare uniti”, “rispettare l’opposizione”, “sanare i divari”. Non hanno nessun valore. Da distruggere, dopo i media pubblici e i tribunali già disfatti con successo, restano i media privati, le università e tutte le minoranze. Incluse, ovviamente, le donne. Per ora la questione dell’aborto è passata in secondo piano, chissà per quanto tempo ancora. Per ora basta la modifica del 23 giugno del codice penale, entrata in vigore con il quarto scudo anti-COVID (anche se non ha niente a che fare con la pandemia), secondo la quale spettano fino a 8 anni di prigione a chi esegue la procedura dell’aborto oltre le leggi restrittive già vigenti (insieme alla pena carceraria per chi offende il presidente e per i medici che sbagliano). C’è un altro nemico da sconfiggere. Subito dopo l’annuncio dei risultati ufficiali, il ministro della giustizia e allo stesso tempo procuratore generale, Zbigniew Ziobro, ha annunciato che la Polonia sarebbe uscita dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, in quanto contraria alla costituzione polacca. Secondo il partito PiS (e la fondazione Ordo Iuris, l’artefice di tutte le proposte di divieto totale dell’aborto e della diagnosi prenatale), la convenzione di Istanbul costituisce un pericolo per la famiglia tradizionale cattolica, in quanto contiene riferimenti all’ideologia gender e LGBT. Marija Pejčinović Burić, Segretario Generale del Consiglio d’Europa, si è dichiarata pronta a un dialogo costruttivo (sic!) che potesse chiarire i dubbi del governo polacco inerenti alla convenzione.

La professoressa Monika Płatek, femminista e costituzionalista, forse la voce più ragionevole nell’irrequieto femminismo polacco, in un articolo pubblicato il 24 luglio su “Gazeta Wyborcza” ha smantellato tutti gli argomenti del governo. Lascio dunque la parola a lei: “La convenzione non solo non mira alla distruzione della famiglia, ma addirittura ordina al potere di prendersene cura. Non esiste nella convenzione un paragrafo che obblighi i ragazzi a portare i vestiti femminili. Tanto meno uno che parla dell’orientamento sessuale o dei matrimoni fra persone dello stesso sesso. La religione non è mai accusata di essere responsabile della violenza. Si chiarisce soltanto che la violenza non deve essere giustificata dalla religione, e ciò ha un significato del tutto diverso. Il ritratto che il governo fa della convenzione è una prova dalla sua malevolenza (…) Qualcuno che dietro false pretese cerca di fare carta straccia della convenzione, non fa altro che incoraggiare la propagazione della violenza sessuale, la moltiplicazione degli artefici e delle vittime. In Polonia lo stupro avviene quando un “no” è accompagnato dalla violenza, dalla costrizione psichica o da un inganno. La convenzione richiede invece un chiaro “sì” e afferma che ogni relazione sessuale senza il consenso dell’altra persona è un crimine”.

La professoressa discute anche un aspetto della convenzione che regola gli elementi assenti nella giurisdizione polacca: “La convenzione polacca non menziona né la violenza economica né il controllo oppressivo. Non protegge dalla violenza che le donne subiscono dai loro ex compagni con i quali non abitano più. (…) L’aspetto della violenza economica è fondamentale. La convenzione di Istanbul prevede un approccio diverso agli assegni alimentari. Senza questa convenzione gli alimenti non pagati restano un problema della persona che non li paga. La convenzione dispone che lo stato sia responsabile per l’applicazione delle leggi alimentari, sulla stessa identica base per la quale esige il pagamento delle tasse”. Inoltre, la professoressa Płatek mette a tacere chi sostiene che la convenzione viola il principio dell’uguaglianza, proteggendo esclusivamente le donne: “Per quanto riguarda la parità dei sessi, notate il preambolo dove viene sottolineato che la violenza domestica riguarda in maggior parte le donne, ma anche gli uomini ne sono vittime e vanno protetti nella stessa misura. Questa considerazione nasce dalla realtà dei fatti. Sono gli uomini a essere di solito gli artefici della violenza domestica. E le donne ne sono vittime, e uno dei motivi è la disuguaglianza. Le donne e gli uomini pagano le stesse tasse, dovrebbero dunque avere lo stesso diritto alla protezione. La convenzione di Istanbul obbliga i governi a agire perché le persone siano libere dalla violenza in famiglia”.

Tutto sembra chiaro, impossibile da contraddire. Invece il governo, brucando sull’ignoranza e sulla cecità religiosa, ricorre a una narrativa molto pericolosa che purtroppo sta portando i suoi frutti. La vicina di casa di mia madre a Varsavia è una professoressa ordinaria in pensione, molto devota e sempre incollata di fronte alla televisione di stato. Crede nell’esistenza di un “signor gender” che molesta e palpa i bambini nelle scuole. Ai tentativi di discuterne, risponde recitando le formule sentite e ripetute dagli pseudo-esperti. In centro di Varsavia dei vandali hanno disegnato segni offensivi sotto il balcone di una coppia di attivisti gay. In questa situazione, molti, incluso Jacek Dehnel, uno scrittore tradotto anche in italiano, hanno annunciato che per la loro sicurezza pensano di lasciare presto la Polonia e di trasferirsi altrove. E questo ancora prima degli ultimi eventi: a inizio agosto sono state arrestate e poi rilasciate alcune attiviste LGBT+ a Varsavia (la loro colpa consisterebbe nell’appendere delle bandiere arcobaleno su vari monumenti a Varsavia, inclusa la Sirenetta e il Cristo).

L’8 agosto è stata arrestata l’attivista transgender Margot per aver vandalizzato un furgoncino della propaganda anti-LGBT. Alla notizia della custodia cautelare richiesta per 2 mesi (esagerata per questo atto e non usata neanche contro gli stupratori), è stata organizzata una manifestazione durante la quale circa 50 attivisti sono stati arrestati (incluso un ragazzo pugliese). Vari deputati dei partiti di sinistra Lewica e Zieloni hanno partecipato, coprendo con i propri corpi i ragazzi lanciati a terra e picchiati dalla polizia. È stata organizzata immediatamente l’assistenza legale pro bono e nonostante il fatto che la polizia ostacolasse il contatto fra gli arrestati e gli assistiti, dopo 24 ore tutti sono stati rilasciati, tranne Margot. La violenza fisica che la polizia ha mostrato negli ultimi giorni è assolutamente spaventosa e senza precedenti: l’anno scorso, durante il Pride a Bialystok, la polizia ha difeso i manifestanti contro i loro oppositori che lanciavano petardi. Ma dal 2020 la musica in Polonia cambia e la lotta contro LGBT+ diventa lo scopo principale dello Stato. È previsto anche un progetto finanziato dal Ministero della Giustizia da portare a termine entro il 2023: il tema è “la neutralizzazione dei crimini causati dalla violazione della libertà di coscienza, causata a sua volta dall’ideologia LGBT”.

Nel frattempo, il 28 luglio, l’Unione europea ha cancellato i fondi per le 6 città polacche che recentemente si erano autoproclamate “zone libere dall’ideologia LGBT”.

Andrzej Duda ha vinto con una maggioranza risicata (51,03% contro 48,97% di Trzaskowski) e questo, dicono, dovrebbe dare un po’ di speranza. La furia di chi si oppone all’operato dello Stato deve incanalarsi nelle opere a favore di chi è discriminato, senza dimenticare che alla fine dei conti combattiamo per l’amore. Fra tre anni ci saranno le elezioni parlamentari e spero con tutto il mio cuore (tanto la speranza è l’ultima a morire) che qualcosa cambi, ma non so se allora sarà rimasto ancora qualcosa da salvare.

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Zuzanna Krasnopolska, è dottoressa di ricerca in letterature comparate, traduttrice, autrice di vari articoli sulla letteratura polacca e femminile pubblicati in polacco, italiano, inglese e francese. Socia della Società Italiana delle Letterate dal 2012. Vive tra la Polonia e l’Italia.