Parla Mike Pompeo o Anthony Blinken? Un dubbio legittimo scattato ieri ascoltando l’audizione di conferma alla commissione esteri del Senato del nuovo segretario di Stato. Non è un’impresa da poco trovare discontinuità tra la politica estera dell’Amministrazione Trump e quella che intenderebbe svolgere il team di Joe Biden. La musica è la stessa sui temi caldi mediorientali e sudamericani e lo scontro con la Cina.

Blinken di fatto ha elogiato Trump. Il tycoon, secondo lui, ha avuto ragione a usare il pugno di ferro con Pechino ma avrebbe dovuto scegliere sistemi diversi. «Non c’è dubbio», ha detto, che la Cina «rappresenti per gli Stati Uniti la sfida più significativa da parte di uno stato nazionale…(la Cina) «non si nasconde e non attende più…occorre iniziare ad affrontarla da una posizione di forza e non di debolezza». Dopo aver assicurato che la nuova Amministrazione non mancherà di dare appoggio e protezione a Taiwan, Blinken ha aggiunto di concordare con la decisione di Trump di definire un «genocidio» la repressione cinese degli uiguri. Non cambierà nulla anche per il Venezuela. L’amministrazione Biden come quella Trump riconosce il golpista fallito Juan Guaidò come presidente e cercherà obiettivi più efficaci per le sanzioni contro Caracas.

 Il capitolo più intenso dell’audizione di Blinken è stato il Medio oriente. Occorre valutare con attenzione le affermazioni fatte sull’Iran dal nuovo segretario di Stato. Gli Stati Uniti, ha proclamato, collaboreranno con i loro alleati (Israele e i governi europei) per ottenere «un accordo più forte e di più lunga durata» sul nucleare iraniano. Non ha accennato alla fine delle sanzioni economiche introdotte da Trump che penalizzano Tehran e non ha sottolineato una volontà precisa dell’Amministrazione di rientrare nell’accordo del 2015 sul programma nucleare di Tehran  dal quale gli Usa sono usciti nel 2018. «Se l’Iran rispetterà» i termini dell’accordo, ha detto, «anche noi lo faremo».

Nelle intenzioni americane l’accordo dovrà diventare una «piattaforma» per una intesa più ampia. Gli Usa guidati da Biden cercheranno di ottenere con la diplomazia – si spera – ciò che voleva Trump con l’uso della forza: costringere Tehran ad accettare una revisione ampia delle intese per includervi limitazioni non legate direttamente al programma di produzione di energia nucleare, a cominciare dallo sviluppo dei missili balistici. E non è detto che questa posizione non diventi più rigida sotto l’urto delle pressioni dell’Arabia saudita e del gruppo dell’Accordo di Abramo, la normalizzazione voluta da Trump tra Israele e quattro paesi arabi. Tel Aviv ha sganciato più di un siluro contro una ripresa del dialogo Usa-Iran. Il ministro Tzaghi Hanegbi, fedelissimo del premier Netanyahu, ha ammonito che Israele non esiterà a lanciare un attacco preventivo all’Iran se si sentirà in pericolo.

Blinken ha provato a tranquillizzare i dirigenti dell’Anp di Abu Mazen. «L’unico modo per garantire il futuro di Israele come Stato ebraico democratico e dare ai palestinesi uno Stato al quale hanno diritto è la soluzione a Due Stati», ha affermato. Ma, ha aggiunto, «penso che su questo sia difficile vedere evolvere prospettive a breve termine». Vuol dire che Washington non imporrà questa soluzione a Israele e Blinken si è affrettato a rimarcare che l’ambasciata Usa da Gerusalemme non tornerà a Tel Aviv. Netanyahu intanto continua le sue politiche. Il suo governo ha dato il via libera ad appalti per la costruzione di altre 2572 case nelle colonie: 2112 in Cisgiordania e 460 a Gerusalemme est. Appena quattro giorni fa aveva approvato 780 alloggi.