È in un quadro di grande incertezza e di estrema frammentazione politica che si svolgeranno domenica le elezioni generali in Perù. E anche di disincanto e di apatia: provato dalla seconda ondata della pandemia – dopo aver già duramente sofferto la prima -, il paese è per di più ancora scosso dalla lunga crisi politica culminata con l’illegale rimozione di Martín Vizcarra e l’elezione del quarto presidente in appena due anni, Francisco Sagasti del Partido Morado di centro-destra.

Un paese la cui classe politica risulta tra le più screditate al mondo, come indica l’ininterrotta serie di presidenti caduti uno dopo l’altro in una trama di corruzione più forte di qualunque governo: da Fujimori ad Alejandro Toledo, da Alán García ad Ollanta Humala, da Pedro Pablo Kuczynski fino allo stesso Martín Vizcarra, il quale, dopo aver giocato durante il suo governo la carta della lotta alla corruzione, è finito travolto dal vacunagate, lo scandalo che ha coinvolto quasi 500 alti funzionari vaccinati in segreto contro il Covid con settimane di anticipo rispetto al personale sanitario e alle fasce a rischio della popolazione.

Il nuovo presidente sarà scelto domenica – con voto obbligatorio, pena una multa di circa 20 dollari – all’interno di una rosa di 18 candidati, ben 7 dei quali hanno le stesse probabilità di arrivare al ballottaggio, salendo e scendendo di continuo nei sondaggi ma sempre divisi da una manciata di voti, in mezzo peraltro a una grande quantità di indecisi.

LA DESTRA ULTRALIBERISTA punta su Keiko Fujimori, la figlia dell’ex presidente golpista già arrestata nel 2018 per finanziamento irregolare alla sua campagna elettorale; Rafael López Aliaga, membro dell’Opus Dei noto come il “Bolsonaro peruviano”; Hernando de Soto e George Forsyth. E ad essi si oppongono il populista Yonhy Lescano e due candidati di sinistra: il maestro e leader sindacale Pedro Castillo di Perú Libre (contrario tuttavia alla legalizzazione dell’aborto e al matrimonio omosessuale) e la psicologa e antropologa Verónika Mendoza di Juntos por Perú, entrambi decisi ad archiviare la Costituzione fujimorista del 1993 attraverso un’Assemblea costituente, principale rivendicazione delle forze popolari.

È tuttavia Verónika Mendoza, giunta terza nel 2016, a incarnare maggiormente il sogno dei movimenti popolari e delle generazioni più giovani di non cambiare solo il governo, ma anche «le regole del gioco».

UNICA A RICONOSCERE nel suo programma il diritto dei popoli indigeni all’autodeterminazione, come pure a inserire misure di lotta contro la violenza di genere, Mendoza non teme di richiamarsi al tentativo di Hugo Chávez di «costruire il potere su altre basi» né di criticare la mancata transizione post-capitalistica dei governi progressisti, rimasti intrappolati in una logica statalista chiusa ai processi popolari e in un modello estrattivista senza futuro. «Non si può trasformare realmente un paese – afferma – mantenendo una politica dipendente dalle esportazioni di materie prime».