«In una terra in cui piove di rado, un fiume è prezioso come l’oro. L’acqua è qualcosa di potente: penetra nei sogni degli uomini, ne permea le vite, governa l’agricoltura, la religione, la Guerra». Dall’intreccio di geografica fisica, geografia politica e geografia del desiderio, muove Imperi dell’Indo, opera prima pluripremiata della giornalista londinese Alice Albinia, pubblicata da John Murray (Empires of the Indus. The Story of a River, London, 2008) e appena uscita presso Adelphi nella bella traduzione di Laura Noulian (pp. 493, e 30.00).
È insieme un racconto d’avventura, la celebrazione di un rito di passaggio e un dotto trattato storico-culturale, che non scivola mai nella pedanteria. Soprattutto, è una interessante operazione editoriale che, con ironica disinvoltura, rianima il genere del travelogue per il piacere, sottilmente antiquario, di un pubblico più avvezzo a immaginare l’area indo-pakistana attraverso i virtuosismi postmodernisti di Salman Rushdie, o gli scorci intimistici di Arundhati Roy e di Anita Desai.

Commistione di resoconto etno-antropologico, paesaggismo e memoir, il travelogue anglo-indiano poggia, per tradizione, su un patto narrativo dal tratto inequivocabilmente imperialista: il diritto-dovere del viaggiatore di tradurre l’alterità culturale in orizzonti di senso familiari ai lettori metropolitani, garantendo all’Inghilterra un senso di continuità col passato precoloniale dell’India e una illusione di permanenza. E dell’antico linguaggio dei colonizzatori, cui spetta la prerogativa di mappare il territorio e riscrivere la storia dei popoli sottomessi, Imperi dell’Indo conserva la gustosa miscela di supponenza, erudizione, meraviglia e empatia, che rappresenta la quintessenza del genere.

Al generale di Rawalpindi, che deve autorizzarla a valicare la frontiera a passo Nawa, Albinia spiega che vorrebbe «seguire, a piedi, l’itinerario di Alessandro Magno dall’Afghanistan, lungo l’Indo, fino al Pirsar». «Sconcertata», seppur non dissuasa, dal parallelo con Alexander Burnes (suggerito dal «baffuto ufficiale»), il quale «con arroganza si paragonò a Alessandro Magno (ma il paragone in fondo era calzante, giacché entrambi erano impegnati in missioni imperialistiche)», la storica ventinovenne entra in Afghanistan in corrispondenza con l’«annuale ondata di terrorismo transnazionale», rifiutandosi categoricamente di percorrere in jeep i quattrocento chilometri percorsi da Alessandro nel 327 a.C. Dell’antico conquistatore non le basta rievocare le gesta, storiograficamente assai contestate, come lei stessa sottolinea: intende calcare fisicamente le orme.
Tuttavia, dal momento che il travelogue vanta anche un pedigree femminile di tutto rispetto, nel solco di illustri antesignane sensibili ai danni del colonialsmo e interessate alle prospettive marginali (Fanny Parks, Maria Graham, Harriet Taylor, Emma Robertson, per citare soltanto le più note), Albinia seleziona l’itinerario a ritroso nel tempo e nello spazio secondo una logica solidaristica che suona, insieme, pre e postcoloniale: «nessuno amava il Pakistan a quei tempi e penso che questa sia una delle ragioni per cui sono voluta venire qui».

Nel 1999, in coda a un decennio caratterizzato dalla recrudescenza di violenza etnica e dal riduzionismo teorico del «clash of civilizations», l’imperativo della viaggiatrice, in marcia sui sentieri del Grande Gioco che irretì il Kim di Kipling, non può essere altro se non un pellegrinaggio alla ricerca della ricchezza geoculturale e del pluralismo religioso antecedenti alle innumerevoli partizioni subite dalle civiltà cresciute intorno alle sponde dell’Indo.
«Fu l’Indo a dare coerenza alle mie esplorazioni; il fiume è al centro di questo libro perché scorre attraverso le vite delle sue genti come un incantesimo». La metafora esotica dell’incantesimo – che avrebbe senz’altro insospettito Edward Said – non è buttata lì a caso. Se il mito del «Padre del fiumi», alveo di coesistenze pacifiche tra civiltà assetate, comincia a scricchiolare ben prima dell’arrivo degli inglesi, oggi, dopo che alla semplificazione autoritaria del colonialismo si è sovrapposta quella ancora più brutale della Partizione, nonché quella indotta dalla globalizzazione e dalla lotta per il controllo delle rotte del narcotraffico, la sua conservazione esige nuovi sacrifici. Beffardamente, il rilancio dovrà iniziare dalle fogne, per infrangersi, con karmica fatalità, contro il muro di una diga. Ecco allora, a mo’ di incipit, dalla buca di una strada di Karachi «da cui è spuntato un mulinello di acqua putrida e scura», affiorare la «testa gocciolante» di un bhangi, un fognaiolo rigorosamente non musulmano, giacché in Pakistan – Terra dei Puri – solo i cristiani o gli indù di bassa casta sono autorizzati a toccare i liquami.

A riscontro, nelle ultime pagine, l’apocalittica visione della diga «gigantesca, nuova di zecca», che i cinesi hanno costruito nelle vicinanze della cittadina tibetana di Senge-Ali: «Il suo massiccio arco di cemento si leva dal letto del fiume come un’onda enorme pietrificata a mezz’aria. La fisso incredula, cercando di ricacciare indietro le lacrime. La struttura in sé è completa, gli operai stanno installando gli elementi idroelettrici nell’alveo. Da questo lato della diga, c’è qualche pozzanghera, ma nessun flusso d’acqua. L’Indo è stato fermato».
Tra l’abiezione del bhangi, protesi umana di un delta impoverito e melmoso, e la depressione dell’esploratrice romantica, prostrata dall’inattingibilità della sorgente e dalla dissoluzione del mito dell’origine, Imperi dell’Indo accompagna i lettori attraverso scenari degni dell’enciclopedismo panottico dei viaggiatori sette e ottocenteschi. In un villaggio vicino Thatta, nel Sindhmeridionale, una festa nuziale sheeda, nella quale «gli uomini ballano intorno a un tamburo di legno alto fino al petto, i piedi nudi pestano il terreno, mentre le mani del percussionista si muovono sempre più veloci», evoca antiche connivenze afroasiatiche sopravvissute nella «più numerosa comunità di origini africane che si possa incontrare nell’Asia del sud».

Nel Punjab occidentale «le vestigia dell’epoca sikh ancora costellano il paesaggio», e nelle città di Peshawar e Quetta, benché i santuari si sgretolino, il sikhismo violentemente sradicato all’atto della Partizione persiste come religione di frontiera. Nella valle dello Swat (tributario dell’Indo), considerata «la Svizzera del Pakistan» e abbandonata dal turismo straniero dopo l’11 settembre, il paesaggio pittoresco, l’isolamento e «le profonde venature lasciate da un passato buddhista», concorrono a alimentare tra i suoi abitanti «una plateale indifferenza». Dinanzi a un panorama «bucolico», che sembra resuscitare obsolete teorie climatologiche sull’influsso dell’ambiente sul temperamento, l’esploratrice alla ricerca di tracce antropiche non divisive vagheggia l’idea che «la tanto denigrata istituzione musulmana della madrasa potrebbe avere le sue origini nel monastero buddhista».
Infinite sono le testimonianze storiche, religiose, artistiche, archeologiche che questo libro offre, attraversando luoghi e tempi dallo spessore culturale analogo a quello degli eoni cosmici, il cui calcolo sgomentò i primi indologi. Storia congetturale? Contro-orientalismo autodiscolpante? Forse: Albinia sa bene che un residuo di etnocentrismo rimane anche nel bagaglio della viaggiatrice più sorvegliata. Residuo che filtra nell’immaginazione del lettore non britannico come parte del gioco, da accettarsi senza eccessivi sensi di colpa.