Autrice multiforme, difficilissima da identificare tramite una prospettiva univoca alla materia letteraria, Olga Tokarczuk sembra essere sempre più legata, nella sua narrativa, a una visione spaziale, finanche topografica della realtà, dove l’aspetto del «complesso della storia», quello che scaturisce soprattutto dall’esperienza degli ultimi due secoli – l’Ottocento delle spartizioni del paese e il secolo breve dei totalitarismi, così determinante per la letteratura polacca – scompare sotto una superficie di luoghi, di strade, fiumi, di monti, di boschi, spesso osservata da una prospettiva che riesce a essere al contempo marginale – o meglio, liminale – e centrale.

Olga Tokarczuk appartiene – con Wojciech Kuczok, Andrzej Stasiuk, Pawel Huelle – a quella generazione di scrittori polacchi che ha esordito negli anni immediatamente successivi alla caduta dei regimi del «socialismo reale» e che è stata capace di imporsi con straordinario successo sulla scena letteraria di un paese il cui ultimo premio Nobel risale al 1996 con Wislawa Szymborska, protagonista di una stagione politica, culturale e sociale ormai conclusa. La decisione dell’Accademia di Svezia sembra anche porre fine alla tradizione postbellica che vedeva nella lirica il più significativo genere letterario praticato in Polonia e rinverdisce i fasti dei tempi in cui furono romanzieri come Henryk Sienkiewicz o Stanislaw Reymont a ricevere il massimo riconoscimento.

LA MOTIVAZIONE espressa dalla giuria fotografa, del resto, l’esito ultimo di una carriera ormai trentennale, avviata da Olga Tokarczuk nel 1989 con la pubblicazione della raccolta di poesie La Città negli specchi. Recentemente, abbiamo potuto saggiare, anche in italiano, la forza di quella rappresentazione del «superamento dei confini come forma di vita», che innerva l’immaginazione della scrittrice (nata a Sulechów, in Slesia, nel 1962) e che ha trovato il suo apice in I vagabondi (traduzione di Barbara Delfino, Bompiani, 2019), testo frammentario che ruota intorno all’idea di un’umanità sempre in movimento, «modificata» anche nei suoi aspetti biologici dall’evaporazione delle frontiere e dall’intensificarsi degli spostamenti aerei. Se si considera lo svolgimento diacronico dell’opera di Tokarczuk, ci si rende conto come per lungo tempo l’autrice abbia privilegiato la posizione di chi sosta «al limite», senza necessariamente oltrepassare barriere o confini, ma indagandone piuttosto la dimensione transitoria.

Tokarczuk è capace di sostanziare la pretesa – a volte un po’ insistita presso taluni scrittori dell’Europa centro-orientale – di considerare certi territori della regione «il centro dell’universo». Lo aveva già dimostrato con le sue cosmogonie Bruno Schulz, e la scrittrice polacca lo ribadisce in Nella quiete del tempo, (traduzione di Raffaella Belletti, Nottetempo, 2013), dove in una parabola che va dal 1914 agli anni ’80 gli arcangeli – uno per punto cardinale – vegliano sugli abitanti del villaggio di Prawiek, in un’atmosfera di realismo magico che ricorda da vicino l’universo evocato da Stanislaw Wyspianski nelle Nozze. Il concetto ricorrente in buona parte dell’opera di Tokarczuk riguarda la possibilità di apprendere il mondo «dall’interno», attraverso una percezione istintiva, corporea, sensuale, non necessariamente razionale. Al centro del suo universo più che la società vi è una natura dove a dar prova di élan vital sono in ugual misura il genere umano (soprattutto le donne, verrebbe da dire), gli animali, le piante e perfino le cose.

CAPITA quindi che il mondo di Olga Tokarczuk sia popolato da spiriti, vampiri, spettri, di lontane ed esibite origini romantiche, ma al contempo indagato con una capacità di osservazione «clinica» derivata dai suoi studi universitari in psicologia. Paradigmatico da questo punto di vista è il romanzo E.E. (del 1999) ancora inedito in italiano, che vede come protagonista la quindicenne figlia di un solido commerciante tedesco di Breslavia, la quale a seguito di uno svenimento scopre di essere una medium e di poter entrare in contatto con lo spirito del nonno morto. Il caso di Erna Etzner finisce al centro di una disputa quanto mai storicamente realistica tra un esponente della psicologia sperimentale – il dottor Löwe – e un sostenitore della nascente psicoanalisi freudiana, il dottor Vogel. Ma la sfiducia provata da Tokarczuk nella possibilità di definire con chiarezza quale sia l’oggetto della psicologia traspare dalla citazione di Berkeley (posta in esergo al romanzo) per il quale ogni distinzione tra mondo spirituale e mondo materiale è ingiustificata, dal momento che ad esistere realmente sono le persone.

LA COSTRUZIONE di un io femminile complesso, collocato sulla linea incerta che separa i generi, è centrale in Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (traduzione di Silvano De Fanti Nottetempo, 2012) apparentemente un giallo ambientato negli spazi limitrofi dell’Altopiano, zona montuosa sperduta ai confini tra Polonia e Cechia. Qui la protagonista, insoddisfatta del suo vero nome Janina, che sente non corrispondere alla propria personalità iraconda e battagliera, aspira a chiamarsi Nawojka, come la studentessa che, secondo la leggenda, nel XIV secolo frequentò per prima l’università di Cracovia, travestita da uomo.
L’oscura catena di morti misteriose che la vede testimone evoca temi centrali nell’opera di Tokarczuk: la consustanzialità tra vita e non essere, la fusione quasi alchemica tra mondo umano e universo animale, la necessità interiore di essere autori della propria storia, iscrivendola nel tempo sospeso, ma più veritiero del mito. Un’attitudine che si traduce anche nella tendenza dell’io narrante a giocare a nascondino con i dati biografici reali dell’autrice.

OGNI FORMA di sapere enciclopedico, dalla Wunderkammer a Wikipedia, sembra interessare Olga Tokarczuk, ma la sua pretesa di un controllo assoluto sull’episteme si scontra con i limiti della verifica empirica. Riesce comunque a ricondurre l’inevitabile frammentarietà del sapere enciclopedico a una dimensione di saga, come dimostrano tanto Nella quiete del tempo, quanto gli straordinari Libri di Jakub, un Viaggio attraverso sette confini, cinque lingue e tre grandi religioni, senza contar le piccole. Attraverso le vicende di Jakub Frank, cabalista, tzaddik, mistico, profeta autoproclamatosi terzo Messia, Tokarczuk offre una rilettura «liminale» della storia di quella Repubblica nobiliare polono- lituana, che a fini consolatori era stata glorificata in chiave di «Dio, patria, famiglia» dalla trilogia di romanzi storici di Henryk Sienkiewicz. Le narrazioni di Tokarczuk, rese fluide da una lingua chiara e precisa, sembrano soddisfare alla perfezione le esigenze intepretative della nuova ecocritica e al contempo costituire una straordinaria pietra di inciampo sulla strada di sovranismi e nazionalismi.