Un abbraccio caldo, tutt’amicizia, subito dopo la proiezione in anteprima a Parigi di Ride all’Institut Culturel Italien: Valeria Bruni Tedeschi abbraccia con dolce sincerità l’amico Valerio Mastandrea, trasmettendogli l’emozione provata da lei e dal pubblico davanti al primo film di regista dell’attore italiano, che, ancora inedito in Francia, verrà presentato da Francesco Ciai Via al prossimo Festival di Annecy. Valeria ritrova in Francia la sua Italia: silhouette silenziosa e elegante, che, nel buio, ha preso posto in mezzo a tutti gli altri, scarica ora il suo sorriso materno e l’ammaliante sguardo azzurro sul cinema italiano che rinasce e ritorna, con i suoi autori e interpreti, oltre frontiera. Lei ha lasciato l’Italia, dov’è nata a Torino 55 anni fa, a 9 anni, prima di diventare attrice, naturalizzata francese, poi sceneggiatrice e regista (già 4 film, di cui l’ultimo, I villeggianti, presentato alla scorsa Mostra di Venezia). Figlia dell’industriale e compositore Alberto Bruni Tedeschi – che negli anni di piombo si trasferì a Parigi con la ricca famiglia di origine ebraica per timore di rapimenti e riscatti – e della pianista e attrice Marisa Borini, due fratelli – ‘Carlà’, ex first lady di Francia, e Virginio, scomparso 3 anni fa (cui Valeria ha dedicato il film Un castello in Italia) – frequenta a Nanterre i corsi di teatro di Patrice Chéreau, suo primo trampolino di lancio nel mondo del cinema (Hôtel de France nel 1987). Italia e Francia da quel momento diventano un’unica risacca, un va e vieni di set e di autori al di qua e al d là delle Alpi: e anche amori importanti, di qua e di là, da Mimmo Calopresti (La seconda volta nel ’96, La parola amore esiste nel ‘98, premiata per entrambi con il David) a Louis Garrel (attore, con Valeria Golino, nel suo film più bello, Actrices del 2007). A Parigi, dove l’abbiamo incontrata ai Rendez-Vous di Unifrance del cinema francese, l’attrice-regista si presenta ‘senza’ madre, accompagnatrice, e mattatrice, abituale nei precedenti incontri al Torino Film Festival.

Come mai stavolta sua mamma la manda sola ?

(Ride) Lavoriamo molto bene insieme : è un rapporto persino migliore di quello che abbiamo nella vita. È stata con me anche a teatro, dove mi capitava di insultarla in scena. Mia madre ha iniziato tardi, ma è una grandissima attrice. È assai precisa, forse perché è stata prima pianista : dote importante per un’interprete. E poi è bella, fotogenica.

Di film in film la sua famiglia cresce…

Sì! Ne I Villeggianti, c’è anche mia zia, che ha 7 anni più di mia madre. Il marito le ha sempre impedito di recitare. Lo fa adesso, nel mio film, a 94 anni. È una super-attrice: con una memoria di ferro e capace di improvvisare secondo il momento. E c’è mia figlia, la piccola senegalese che avevo adottato insieme a Louis Garrel, con cui sono rimasta in ottimi rapporti: ce la scambiamo a ogni fine settimana. In realtà, avrei voluto proteggerla dal cinema, ma, come mi ha subito rimproverata mia sorella, alla prima occasione l’ho fatta recitare.

La sua cinematografia, ma anche la sua vita, è fatta di grandi amicizie.

Mi piace lavorare sull’intimo: prima o poi si passa sempre da lì, non ci si può sottrarre. Se nel mio cinema confluiscono le persone della mia vita è perché questo mi aiuta a rientrare nell’intimità. Senza contare che spesso sono anche grandi interpreti, come Valeria Golino, con cui ci siamo ritrovate, in pieno inverno, al Festival des Arcs, io con il mio nuovo film, lei con il suo: è bello lavorare e trascorrere le giornate insieme.

La vita, più del cinema, comporta spesso abbandoni e dolori: veri. Come reagisce?

Il nuovo film, avrei voluto girarlo con Louis Garrel, il cui persognaggio è interpretato invece da Riccardo Scamarcio (tra l’altro, «ex» di Valeria Golino…). Io non riesco a pensare alla vita come a una serie di rotture. Ci ci incontra, si sta insieme, ci si lascia : non è grave. Il nostro intimo, quel che abbiamo vissuto nel profondo è salvo: rimane. Mi piace immaginare la vita in continuo sviluppo : un progressivo allargamento. Se il mio cinema imita la mia vita, inevitabilmente si allarga…

Programma sereno. Ma è stata donna (e interprete) gaia una sola volta, nel bel film di Roberto Andò, «Viva la libertà». Per il resto, specie in Francia, sempre fragile e tormentata, anche un po’ nevrotica. Come mai ?

Forse la Francia sa vedermi solo così? Ma non sono mancati ruoli a tutto tondo, per esempio in Le persone normali non hanno niente di eccezionale di Laurence Ferreira Barbosa, dove sono stata premiata nel 1993 ai César (giovane promessa femminile) e a Locarno. Anche in Francia, di volta in volta, piccole grandi ‘famiglie’: Patrice Chéreau (La Reine Margot, Ceux qui m’aiment prendront le train) o François Ozon. Non solo Il tempo che resta ma CinquePerDue – Frammenti di vita amorosa, dove interpreto una storia d’amore à rebours in epoche diverse, esplorando varie gamme emotive, dall’estasi innamorata al cinico distacco. Anche fisicamente mi sono obbligata a mutazioni continue, con diete ingrassanti per adattarmi alle diverse età del personaggio.

Tra i registi che l’han valorizzata o ispirata (dal Bellocchio di «La balia» al Virzì di «Il capitale umano» e «La pazza gioia», per cui è stata premiata al Bif&st), chi le manca di più?

Patrice Chéreau. È il padre simbolico del mio lavoro. Mi manca tanto. Per Arté ho girato un adattamento delle Tre sorelle, un Cechov che corrisponde alla morte di Patrice e al bisogno di lavorare ancora con lui. Per la prima volta non sono stata anche attrice. Mi hanno imposto gli attori come nei matrimoni combinati, ma poi me ne sono innamorata. Per stare ancora con Chéreau, l’ho realizzato con il ballerino che era il suo fidanzato. Un clima d’attesa, di fatalità che poi ha impregnato I villeggianti. Il cinema è anche una maniera per riconvocare le persone che se ne sono andate: per farle parlare di nuovo