Se per Aristotele la rappresentazione teatrale produce la purificazione liberatrice delle passioni umane più irrazionali e quindi deleterie, tanto che il più grande dei suoi discepoli, Teofrasto, si spinge a definire la tragedia come la messa in scena della «catastrofe di un destino eroico», allora comprendiamo il motivo di fondo che ha spinto Luciano Canfora a riassumere la questione dell’utopia in questi termini: Aristofane contro Platone. Il teatro del primo, insomma, nella fattispecie della commedia «Ecclesiazuse» («Le donne all’assemblea»), come cura catartica rispetto alle passioni utopistiche, e foriere di regimi liberticidi, contenute nell’opera filosofica e politica del secondo.

Esce in questi giorni l’ennesima fatica del noto filologo barese, con il titolo La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone (Laterza, pp. 448, euro 18). L’incontro è stata l’occasione per discuterne gli snodi fondamentali.

La «crisi dell’utopia», come già emergeva nelle pieghe del suo libro precedente («Intervista sul potere», Laterza 2013), sembra più una crisi dello studioso Canfora che, da uomo della sinistra radicale, sente ora di dover evidenziare, pur senza il manicheismo di Popper, eccessi e drammi del pensiero utopistico da Platone a Marx. È così?

Ho sempre avversato l’espressione «sinistra radicale»: a) perché radicale è aggettivo comunque connesso alla figura deteriore di Marco Pannella e dei suoi seguaci; b) perché la autocompiaciuta definizione di «sinistra radicale» è appannaggio di esponenti dannunziani come Bertinotti e Vendola; c) sin dal 1976 ho scritto e cercato invano di far pubblicare su «Rinascita» che i comunisti dopo la seconda guerra mondiale sono diventati, con grande merito, i protagonisti principali della lotta per una democrazia progressiva; non potevano, se non riducendosi a macchiette patetiche, pretendere di rimanere le stesse persone che nel 1917-1920 sognarono l’attualità della rivoluzione e furono sconfitti. Il movimento comunista dopo la seconda guerra mondiale è stato la migliore incarnazione della socialdemocrazia: movimento politico fondato da Carlo Marx e Federico Engels. Per chiarezza: il movimento comunista è agli antipodi della nevrosi radicale. Solo nella confusione mentale sessantottesca i due concetti rischiarono di confondersi.

Veniamo al libro, e alla sua riproposizione della vexata quaestio che vede in Aristofane l’aggressore del nucleo concettuale della «Repubblica» platonica.

Nel 220° anniversario della dissertazione del grande, e dimenticatissimo, studioso tedesco Morgenstern, mi è parso giusto riprendere dalle basi una discussione che si trascinava tra alterne vicende. Ho preferito enucleare i due punti cruciali: 1) tutti ammettono coincidenze, anche verbali, tra la commedia aristofanea «Ecclesiazuse» e il quinto libro della «Repubblica»; 2) l’obiezione che rendeva i moderni esitanti o protesi a ricercare spiegazioni assurde consisteva nella cronologia (Aristofane verrebbe prima). In realtà la data dell’«Ecclesiazuse» è più tardiva di quel che si crede e Platone, per parte sua, aveva già diffuso il nucleo del suo pensiero sulla «kallipolis» prima del viaggio in Sicilia (389 a.C.).

Lei parla di uno «scandalo Platone». Il filosofo greco rivoluzionario al punto di proporre quell’emancipazione egualitaria della donna a cui non pervennero neppure Marx ed Engels. Eppure il pensiero femminista non l’ha amato. Ci spiega il suo punto di vista?

Conviene distinguere due piani: da un lato l’effetto di rottura costituito dalla proposta platonica della parità uomo-donna (libro IV della Repubblica), dall’altro il presupposto intrinsecamente «maschile» della formula «comunanza delle donne» (libro V). Questa formula implica chiaramente una visione distorta che finisce con l’equiparare donne e beni materiali come proprietà. Ed è proprio su questo punto debole, contrastante col presupposto della parità, che fa leva efficacemente Aristofane nella commedia «Le donne all’assemblea», soprattutto nel finale. Come mi è accaduto di scrivere, Aristofane fa saltare la Kallipolis platonica, assumendo come punto di forza proprio questa contraddizione.

Resta il fatto che l’intuizione della parità è un enorme passo in avanti nei confronti della mentalità greca di età arcaica e classica: la controprova di ciò è nella ostilità dispiegata dai Padri della chiesa cristiana contro Platone, per l’appunto a causa della propugnata idea della parità uomo-donna.

In più punti del suo libro emerge una rivalutazione del cosiddetto socialismo utopistico, a tratti persino dileggiato da Marx ed Engels. Può spiegarci il senso della sua «riscoperta?»

L’espressione socialismo utopistico spetta soprattutto ad Engels, nel troppo celebre opuscolo «Il passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza» (consistente nei primi capitoli dell’anti-Dühring). Nel III capitolo del «Manifesto del partito comunista» – nel quale vengono passati in rassegna i socialismi precedenti – vengono collocati sotto una luce negativa sia i passatisti che auspicano un ritorno alle società arcaiche, bollati come «socialismo medievale», sia i socialisti francesi contemporanei protesi alla attuazione di riforme sociali radicali. Come è chiaro si tratta di cose molto diverse, messe tutte insieme e sommariamente definite tutte utopistiche. Oggi constatiamo che il progetto di trasformazione totale dei rapporti di produzione in senso collettivistico è finito su un binario morto e che invece il gradualismo riformistico della socialdemocrazia appare come la sola forma concreta di rinnovamento della società. Di conseguenza i cosiddetti «utopisti» sono diventati i «realisti» e i loro critici «scientifici» sono rifluiti nel grande mare dell’utopia.

Uno dei tratti più storiograficamente azzardati del suo libro consiste nell’istituzione di un nesso fra la coppia Socrate/Platone e Hegel/Marx. Quali i punti di contatto e di difformità da lei evidenziati?

L’analogia tra le due coppie filosofiche è di immediata evidenza. Marx stesso considera il proprio pensiero un capovolgimento materialistico del nucleo originale del pensiero hegeliano. Inoltre, al di là degli elementi biografici, ricordo il tragitto che un tempo veniva sintetizzato nella formula «da Socrate a Platone, dal concetto all’idea» (capovolgimento in senso idealistico del pensiero di Socrate). La difficoltà, semmai, consiste nel fatto che di Socrate, diversamente che di Hegel, non abbiamo l’opera scritta, bensì le molte parafrasi dovute ai suoi allievi. Il più geniale dei quali, cioè Platone, ha escogitato la trovata di mescolare il suo proprio pensiero con quello del maestro (Socrate è persona loquens di tutti i dialoghi, tranne i Nomoi).

Platone rappresenta la ragione utopistica, costantemente alla ricerca del «sogno di una cosa». Aristofane la ragione beffarda, pronta a colpire la prima con le armi del realismo e dell’ironia. Quali, secondo lei, gli esiti di questa dialettica storica?

La vittoria del realismo beffardo nei confronti di ogni genere di proposta innovativa, bollata come utopistica, è fin troppo facile e abbiamo visto nel corso del tempo ripetersi sistematicamente tale scenario. Il realismo beffardo fa capo al senso comune, che talvolta vien voglia di definire «il sesto senso degli idioti».