Alla domanda «siete garantisti o giustizialisti?» nulla di più facile, in tempi come questi, che la risposta prenda una scorciatoia: «io sto con il popolo». Una trappola non solo dell’area grillina, leghista o perfino di certa sinistra: la questione è che se da un lato, ormai da quasi tre decenni, in Italia la lotta di classe è evaporata lasciando il posto all’invidia di classe, per altri versi, con uno slittamento che in parte è semantico e in parte è logico, le garanzie e lo Stato di diritto rischiano spesso l’etichetta di «lussi da élite», contrapposte ai bisogni «della gente comune, degli onesti, degli innocenti, del popolo, appunto». Mentre il populismo penale – che viene da lontano, e più che a Pontida nasce negli studi tv di certi giornalisti d’inchiesta – ormai sembra essere diventata «l’ideologia che domina nel presente», quasi lo «spirito del tempo».

LA RISPOSTA perciò è tutt’altro che scontata, ed è per questo che Luigi Manconi e Federica Graziani la pongono ai lettori mettendoli alla prova con casi concreti, in un libro scritto «con una chiave paraletteraria, più vicina alla novellistica che alla saggistica». Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale (Einaudi Stile libero, pp.260, euro 17,50), è sicuramente uno di quei testi da non perdere se si cerca una bussola tra slogan demagogici, facili etichette – anche quella abusata di «populismo» – e falsi miti. Rifuggendo comunque «lo scontro stantio e astratto sul politicamente corretto». Anche perché, come avvertono gli stessi autori citando i casi di Berlusconi e Salvini, «il garantismo è una disciplina estremamente faticosa che può risultare incompatibile con le esigenze della lotta politica».

Chiunque si dichiari contro il giustizialismo morale non può non cominciare con lo studiare il fenomeno Marco Travaglio, one man band del tintinnar di manette, «visionario del reale», surfista spregiudicato dell’attuale fase emotiva collettiva, quella del «rancore» con tutte le sindromi connesse, artista assoluto della «mitologia della cronaca» che porta il «lettore consenziente» a trasformarsi in «élite giudicante».

Manconi e Graziani però vanno ancora più a fondo, tornando agli esordi mediatici italiani del populismo penale, agli anni ’80, con le sperimentazioni di Gianfranco Funari e Michele Santoro che introducono «il giudizio popolare, l’emozione collettiva» come ago della bilancia su «due tematiche essenziali: la sicurezza-criminalità, la politica-corruzione». Solo più tardi, nei primi anni ’90, la politica dell’antimafia si aprì un varco di consapevolezza nella coscienza civile collettiva, visse un’impennata di consensi, dando però anche risalto a «umori regressivi» e smanie di protagonismo che posero le basi alla cultura giustizialista. Travaglio si inserisce in tale contesto, quando si andava stringendo il rapporto «di dipendenza, fino alla promiscuità» tra la magistratura inquirente «e gran parte del giornalismo italiano, specie quello addetto alla cronaca nera».

DA QUI ALLE TEORIE cospirazioniste che affondano le radici in «quel sentimento di accesso esclusivo a informazioni che proverebbero una macchinazione orchestrata minuziosamente dai “poteri forti”», il passo è breve. Immigrati, legittima difesa, vaccini e quant’altro: tutto rientra in un magma indistinto dove a fare da reagente è l’incompatibilità tra statistiche reali e angosce collettive. La sfiducia nei politici diventa presto (complice il web) sfiducia nei corpi intermedi, nei giornalisti, nella medicina, nella scienza. L’«uno vale uno» è lo slogan dello scetticismo nei confronti degli “esperti” assunto a principio, del disprezzo per ogni verità scientifica che viene sostituita da credenze strampalate, dietrologie, sospetti continui, di cui – per riprendere un esempio dal libro – il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia è un ottimo promoter.

Un «principio di irrealtà» che fa il paio con «l’ideologia dell’immediatismo» (propria del M5s, in cui «passato presente e futuro si fondono in un’indistinta attualità») e che «trasforma immediatamente l’errore in reato e il peccato in crimine». È il populismo penale: quello del proibizionismo, della retorica delle «pene certe», della «tolleranza zero», delle carceri sovraffollate e dimenticate.

L’attuale pandemia ha portato al pettine altri nodi nascosti, facendoci trovare a tu per tu con la serpe negazionista e cospirazionista.

CITANO ANCHE IL MANIFESTO, Manconi e Graziani, prendendo alcuni interventi (Agamben) ospitati da questo giornale ad esempio di un certo «ribellismo populista» che riduce «ogni misura governativa alla poltiglia indistinta della dittatura più nera», e in nome della democrazia e di una libertà «altrettanto totalizzante» insegue posizioni astratte senza sfumature né mediazioni, che sono invece «alla base della nostra civiltà giuridica».

Glielo concediamo perché, come concludono gli stessi autori, «mentre in tanti ripetono che dopo questa pandemia “nulla sarà più come prima”», è più facile che tutti noi «saremo più poveri, ma stronzi uguale».