«Abbiamo paura non solo del ritorno della guerra, ma anche di chi oggi detiene il potere». È una risposta che ricorre spesso, sottovoce o nascosti per timore di essere spiati mentre si parla con un giornalista italiano. Chi ha paura in Mozambico? È la domanda che abbiamo rivolto a ogni persona che abbiamo incontrato. Perché qui la paura si percepisce a ogni angolo, a ogni falsa perquisizione della polizia mozambicana che ti impone l’alt solo per “rubarti” quei 100 meticais da dividere tra i poliziotti.

24 ANNI DOPO L’ACCORDO di pace siglato a Roma nel 1992, che ha concluso la guerra civile in Mozambico tra Frelimo e Renamo, i due principali partiti politici, sono ancora evidenti gli effetti della guerra. Interi quartieri, in questi anni, sono stati costruiti abusivamente ovunque, senza nessun disegno urbanistico. Per lungo tempo il problema di dare un tetto alla popolazione non era la priorità per il governo mozambicano; la priorità era il conflitto.

SIAMO A NAMPULA, capoluogo dell’omonimo distretto. Circa 650 mila abitanti ammassati per lo più in baracche disseminate ovunque. Basta uscire delle poche strade che formano il centro, oppure lasciarsi alle spalle l’aeroporto e percorrere un chilometro, per veder finire l’asfalto; solo sabbia e cumuli di immondizia ovunque.

Sembra tramontato l’entusiasmo di alcuni anni fa, quando il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), che prese il potere nel 1975 dopo la cacciata dei colonizzatori portoghesi, godeva di un ampio consenso in quasi tutto il Paese. Dall’altra parte non si è mai arreso Afonso Dhlaklama, leader della Resistenza nazionale mozambicana (Renamo). Le elezioni politiche presidenziali le ha sempre perse. L’ultimanel 2014 contro l’attuale presidente Filipe Nyusi.

Gli scontri erano ripresi nel 2013: prime incursioni della Renamo nel centro del paese, abusi sessuali e maltrattamenti da parte delle forze armate nella provincia di Tete. Molti mozambicani fuggirono verso il Malawi e il campo profughi di Kapise. «Nel 2013 – afferma Woja Apuuli John, direttore dell’ufficio Unhcr a Nampula – almeno 6 mila mozambicani sono scappati in Malawi, un paese povero colpito da siccità e carestie, che ospita già 25mila profughi provenienti dai Grandi laghi e dal Corno d’Africa».

DURANTE LA GUERRA CIVILE il tessuto sociale del Mozambico è stato distrutto. Un elevato numero di bambini hanno subito traumi, sia perché assistevano ad azioni di guerriglia, sia perche, a seguito della morte o della cattura dei genitori si sono ritrovati senza mezzi per vivere. È nato così il fenomeno dei «bambini di strada».

Bambini di strada sui marcepiedi di Nampula
Ragazzi “di strada” su un marciapiedi di Nampula (foto Rosario Sardella)

 

ARTUR DA UNDICI ANNI VIVE sul marciapiede di via A. Eduardo Mondlane, a due passi dal municipio, con altri 12 ragazzi. Alfonso de Lima è un giovane di 30 anni e vive in una discarica, una delle tante della città di Nampula, dove sono pessime le condizioni igieniche sanitarie e i bambini si ammalano di colera. Dopo il tramonto molti si ritrovano ai bordi delle strade, tirano fuori le coperte e i cartoni nascosti sugli alberi e dormono sui marciapiedi.

Edagar Castillo è il direttore di Save The Children a Nampula. «Siamo in Mozambico dal 1983. Ci occupiamo di educazione, anche degli insegnanti, e lotta alla malnutrizione cronica. I bambini non arrivano ai 5 anni perché non hanno cibo adeguato. Poi abbiamo un programma nazionale che si chiama “anti traffico” – continua – volto a rafforzare le leggi locali per prevenire o per seguire il traffico dei bambini e dei loro organi. Abbiamo formato i “gruppi referenti” cioè persone della società civile, della polizia, del settore dell’educazione e della salute, che rafforzano il controllo sul territorio».

Proprio a Nampula qualche anno fa era stato denunciato un traffico di organi che dal Mozambico raggiungeva il Sudafrica e da lì il Brasile. A far emergere l’orribile crimine era stata una suora della congregazione Serve di Maria: Doraci Julita Edinger, 53 anni, brasiliana. Una sera è stata uccisa a colpi di martello.

A 30 KM DA NAMPULA si trova il campo profughi di Marratane, l’unico del Mozambico. È nato nel 2001, quando il governo centrale di Maputo ha deciso di trasferire i rifugiati dalla capitale al nord del paese. 10 mila persone, uomini, donne e bambini di varia nazionalità. Congolesi soprattutto, poi burundesi, ruandesi, ugandesi, somali, etiopi. Avrebbe la struttura di un villaggio qualsiasi se non fosse per il grande cartello all’entrata: Centro de refugiados de Maratane. Quello che una volta era un lebbrosario oggi si estende per 170 kmq ed è suddiviso in 4 zone: A, B, C, D.

MARATANE cartello

NELLA ZONA A INCONTRIAMO Dominique Kahenga Nepanepa, leader della comunità congolese. Da dieci anni vive in una baracca di legno e fango. «Subiamo un trattamento disumano, non abbiamo cure sanitarie adeguate, il cibo è poco e monotono», spiega. Una volta a settimana l’Inar (ente governativo che gestisce il campo) e l’Unhcr distribuiscono il cibo fornito dal World Food Program: 2,7kg di fagioli, 7 di farina di mais, 17g di sale e un litro di olio a persona. A volte olio scaduto da tre mesi, come quello distribuito durante la nostra visita. File e file di persone aspettano di avere la loro razione.

ANCHE ALINE È SCAPPATA dal Congo con il suo bambino e ha attraversato diversi paesi prima di arrivare in Mozambico. Racconta di essere stata stuprata durante il viaggio. A Marratane si prostituisce per poter dare qualcosa da mangiare al suo bambino. Quasi tutte le donne di Marratane vendono il proprio corpo.

Alamtara invece è somalo, piccolino di statura, un viso intriso di paura, ma vuole parlare. Ha una piccola baracca-negozio all’inizio del campo profughi. Musulmano convertito al cristianesimo, ha subito le persecuzioni di al-Shabaab in Somalia e ora anche qui a Marratane. Un giorno mentre dormiva gli hanno spaccato la testa. Per lui vivere è un inferno.

C’È SOLO UNA SCUOLA ma «non ci sono insegnanti preparati» – dice Pierre Karamanzisa, ex professore di matematica in Ruanda e oggi leader della comunità. C’è una chiesa e ci sono i padri scalabriniani che gestiscono un centro nutrizionale alla meno buona. Un solo ospedale fronteggia i parti delle donne, malattie, i casi di Hiv che i rifugiati contraggono durante il loro viaggio della speranza. «Oggi a Marratane ci sono circa 250 adulti con l’Hiv, e dieci bambini», informa Orlando Simeo Alvis, direttore della struttura sanitaria.

DA ALCUNI ANNI Henry Nwessa Bgunba, giovane congolese di 32 anni, ha messo in piedi una radio. Si chiama Radio Marratane e trasmette ogni giorno le informazioni che passano nel campo. Il sogno di Henry era quello di diventare un grande giornalista, «ma nel mio paese era impossibile studiare per la guerra. Qui in qualche modo ho realizzato il mio sogno».

MARATANE Baracca

 

PIERRE KARAMANZISA ci invita nella sua baracca per un tè e tira fuori dalla sua cartella dei documenti e delle foto. La storia è questa: un uomo ruandese arriva a Maputo, capitale del Mozambico, e si finge profugo per farsi trasferire a Marratane. Ha dei complici nel campo e riesce tranquillamente a entrare. Pierre con delle ricerche incrociate riesce a scoprire chi è. Recupera addirittura una foto che ritrae l’uomo in tenuta militare con un mitra in mano. Non ci sono dubbi, è una spia. Nel frattempo il ritrovamento di un cadavere scuote i profughi ruandesi. «Il governo ruandese ci vuole morti. Vedi: questa foto ritrae un nostro fratello trovato morto avvelenato. Ci sono stati almeno quattro casi del genere».

Killer

I FATTI RISALGONO AL 2005. I profughi hanno raccolto tanto materiale e scritto anche al governo centrale mozambicano, inutilmente. Secondo il padre scalabriniano Rodenei Serpinski, guida spirituale del campo, «deve muoversi prima di tutto l’Uhncr, che è responsabile dei profughi», dice . L’addetta alla sicurezza di Uhcnr a Marratane è una ragazza di 26 anni, brasiliana. Proviamo a chiamarla e a chiedere informazioni, ma lei dice di apprendere la notizia da noi.