Davvero si respira un’aria di altri tempi, entrando nello studio-fondazione Castiglioni in piazza Castello a Milano. Proprio di fronte ai muri del Castello Sforzesco, spessi 7 metri e interrotti dalle bifore in cotto, si entra al numero 27. Si supera il disimpegno della portineria a sinistra, poi si volta subito a destra, e lo studio, oggi fondazione, è proprio lì, al piano terra, nel cortile… E qui, ci piace pensare sempre accompagnato da giovialità e gentilezza, il mondo Castiglioni ha dato vita a piccoli e grandi progetti di design. Chi ha avuto la fortuna di incontrare e conoscere, anche per pochi minuti, il sorriso amichevole di Achille Castiglioni, non riesce con facilità a rapportarsi al mondo delle archi celebrities che “arredano” e popolano il panorama del design milanese di oggi, soprattutto durante i fatidici giorni del Salone del Mobile e dei, ahimè, troppo spesso troppo modaioli fuori Salone, che a volte non hanno molto a che fare con la cultura sana e concreta del Design Made in Italy.

Tutto vero, altri tempi. Ma la fondazione Castiglioni ha riservato una sorpresa a chi ha ancora voglia di seguire i lavori di ricerca, studio e memoria intorno a tutto il materiale che è stato prodotto e diligentemente archiviato duranti gli anni negli scatoloni che stanno sugli scaffali dello studio.

Basta guardarsi intorno in una delle stanze dello studio e, semplicemente, decidere a quale scatolone – e quindi a quale progetto – si vuole dedicare del tempo. Lo scorso 27 giugno, l’appuntamento di design in piazza Castello ha deciso di raccontare, grazie all’intervento di due collaboratori di lunga data di Achille Castiglioni, la lampada Gibigiana (Flos). E, intanto, è stata organizzata, dalla figlia Giovanna Castiglioni e da Marco Marzini, anche una mostra che, dal 6 giugno fino al 10 agosto, espone tutto il materiale trovato proprio in quello scatolone.

E allora, già solo il nome, ha bisogno di essere spiegato. La gibigiana, a Milano, è il gioco che i ragazzini fanno per riflettere, con uno specchio o con un’anta della finestra, la luce del sole addosso a un amico. La lampada Gibigiana è proprio questo: un gioco di luce che permette di dirigere il raggio luminoso circoscrivendolo a un luogo molto definito. Ma la lampada è anche un marchingegno difficile da realizzare e comprendere nei dettagli.

Obiettivo e idea di partenza di Gibigiana? Quello, per esempio, di realizzare una lampada che riuscisse a non disturbare chi ci dorme accanto. Flos lo aveva già raccontato nel 1980 al suo pubblico in showroom, con le vignette di Crepax che raffiguravano Valentina a letto mentre legge con la luce di Gibigiana, mentre il suo compagno dorme al buio.

L’architetto Paolo Ferrari, che era entrato nel 1972 nello studio Castiglioni mentre studiava architettura, ha cominciato a raccontare di Gibigiana dando l’idea di come funzionavano le cose e quale fosse uno degli ingredienti fondamentali in piazza Castello. “Questo era davvero un luogo magico,” ha esordito, “una fabbrica delle idee. Quando sono arrivato, era un luogo completamente nuovo, perché stimolava a pensare, e a essere disciplinati e attenti. A mettersi in competizione, nel senso che qui c’era davvero un grande viavai, e s’incontravano persone, idee, sapienze di ogni genere. In questo studio magico si progettava, si parlava di tutto. Si scherzava e giocava molto. Ma era un gioco serio, quello che facciamo tutti da bambini, quando giocare è il nostro lavoro per imparare. Nel 1972 imparavo sia al Politecnico, sia qui. E s’imparava di tutto. Per esempio ho imparato anche, ascoltando Castiglioni al telefono, che ci vuole metodo anche nelle relazioni. Si deve imparare a parlare con tutti: con l’artigiano, con l’operaio con l’imprenditore”.

Gli accorgimenti erano di molti tipi diversi. Le lampade e gli oggetti disegnati da Castiglioni sono nati non per velleità puramente estetiche, ma soprattutto per e da un’acuta osservazione della realtà. Se Arco (Flos) nasca con la necessità di fare passare la gente sotto la fonte luminosa senza avere vincoli a soffitto, allo stesso modo Gibigiana nasce dalla necessità elementare di non illuminare, una volta accesa, l’intero locale. E allora ha una luce che parte da un altro punto e che, come la gibigiana vuole, è riflessa da una superficie specchiata in un altro punto. “La necessità di avere uno specchio nasceva da due esigenze: la prima era che bisognava portare una quantità di luce a fare un lavoro intenso ed efficace ma con poca potenza per non disturbare gli altri presenti nella stessa stanza; la seconda era che le sorgenti luminose efficienti, producendo troppo calore, imponevano degli anelli per poter essere spostate”. Per Gibigiana è stato scelto di mettere la sorgente luminosa (e di calore!), lontana dal punto illuminante, e di regolare con lo specchio la riflessione della luce. Ma c’era da fare tutta una lunga sperimentazione… E, di fatto, nello scatolone sono stati trovati i tanti prototipi di studio che hanno infine portato alla soluzione finale.

Per esempio, una delle prime forme era stata fatta da un artigiano che aveva posizionato la luce e il trasformatore, ma si era capito subito che la distanza era troppo corta, e quindi bisognava alzare la porzione di cono e, per i giochi di ombre che avrebbero coperto la luce, tagliare il cono in obliquo, a fetta di salame”. Le sperimentazioni si sono susseguite incessantemente, fino ad arrivare all’utilizzo di dischi che potessero ruotare e calibrare l’inclinazione della riflessione. “Poi era necessaria anche una regolazione micrometrica dell’angolazione dello specchio, perché bastava poco per cambiare di molto la direzione della luce. Quella, la nostra, era davvero una sapienza fatta in casa, provando, sbagliando, utilizzando materiali diversi per ideare la soluzione giusta. Mi ricordo che il primo modello è stato fatto con un compasso rotto. E mi ricordo che, quando bisognava ingrandire la rotella piccola all’interno del cono, era stata usata una rotella del Rapidograph della Rotring!”. Tutte le prove sono state studiate, cambiate, migliorate, ma l’idea di quella rotella di Rapidograph è stata uno degli elementi vincenti del progetto. “Il primo successo, ottenuto con la rotella del Rpidograph, ha davvero cambiato le cose e lo stato d’animo. Poi l’ufficio tecnico ci ha detto che lo specchio non andava bene. Poteva rompersi e, soprattutto, la riflessione di una luce molto forte non era ottimale perché lo specchio, avendo uno strato inferiore di nitrato d’argento, creava un alone di luce che aveva una doppia ombra. Ma ha poi trovato anche la soluzione, con l’utilizzo di una superficie di acciaio inossidabile lucidata che, non avendo il doppio spessore e la doppia riflessione, ha cancellato la doppia ombra”. Questi sono solo alcuni dei problemi e delle ingegnose soluzioni che si sono raggiunte per portare finalmente in produzione Gibigiana. Semplice, no? Forse non troppo, però lo era all’interno di una squadra che cooperava con passione al progetto. Marco Pezzoli, che era responsabile dell’ufficio tecnico in Flos agli inizi e durante le sperimentazioni di Gibigiana, racconta un altro spicchio di realtà di quei tempi. Racconta di come si è sempre appassionato al proprio lavoro divertendosi. “A ventiquattro anni non sapevo bene cosa fosse il design, ma da Castiglioni ho avuto una prima grande accoglienza, ed eravamo tutti invogliati a parlare di tutto, di dubbi, di idee. In questo studio, senza divertimento, non facevamo niente. Le persone tristi le lasciavamo fuori. E Gibigiana piaceva e appassionava tutti, anche nella nostra innocenza progettuale e ingegneristica. Eravamo ingegneri fatti in casa, soprattutto all’inizio e, quando da noi è arrivato il primo disegnatore, è stato una vera conquista. Poi venivo io a Milano, ‘portatore del verbo aziendale’, e venivo per dire ‘noi avremmo pensato così…’. E, da una piccola cosa, ne facevamo partire tante altre, e ne discutevamo con molta immaginazione. Volevamo fare un prodotto-prodotto, industriale e non artigianale e, proprio Gibigiana, è una lampada con il maggior numero di componenti singole. Questa sera ho incontrato collaboratori che non vedevo da anni, e continuo a credere che ci voglia davvero questo spirito nelle cose, che è lo spirito dell’ironia, della curiosità, che è la cosa più difficile. Oggi, invece, tutto è misurato con il metro economico: quanto tempo ci vuole? E quanto investimento? Ma noi ci siamo divertiti tutti con Gibigiana, e ci sentivamo davvero appartenere a un team collettivo di produttori di belle cose e Made in Italy. Che, in realtà, c’era già senza il bisogno di definirlo”. Dopo la conferenza, grossi specchi circolari di circa 50 centimetri di diametro e appesi nello studio, erano a disposizione dei presenti per “giocare alla gibigiana” e, magari, leggere allo specchio il comunicato sulla mostra che, in onore alla lampada, è stato stampato anche al contrario…