Ci sono fine-vita leggere come piume, altre pesanti come montagne. Quando nel novembre scorso l’Università Roma Tre gli conferì la Laurea Honoris Causa per «una delle più straordinarie iniziative di pedagogia popolare realizzatesi nel secondo dopoguerra», don Roberto Sardelli non poté ritirare il titolo perché da tempo malato, in sua vece andarono due ex allievi in un’aula magna gremita di loro compagni commossi e plaudenti.
In effetti, era da oltre un anno che tentavo di catturare la testimonianza diretta nell’artefice di una delle più fulgide esperienze che la Storia dei diseredati in Italia annoveri, una scuola popolare di fine Anni Sessanta tra i baraccati capitolini dell’Acquedotto Felice. Ma ogni tentativo veniva frustrato: la voce del prete al telefono era flebile e discontinua, la coscienza via etere appariva fluttuante, l’intenzione positiva a concordare l’incontro veniva invalidata da obiettive dissonanze su luoghi e date…
Tuttavia, nella natia Pontecorvo dove s’era ritirato, giorni dopo il riconoscimento accademico amici ed ex scolari in massa vollero festeggiarlo pubblicamente, e lì vidi la metamorfosi: il don risaliva a velocità supersonica la china depressa della mente vagante e degli organi di senso affaticati. Lucido, partecipe, vigile, sorridente, ridente. E squarci di sguardo sornione che malcelavano la severità di condotta lunga una vita, incisa sul volto scavato dalla durezza del conflitto sociale, dall’afflato perenne a un’esistenza più equa, dallo scopo ferito d’un’armonia più autenticamente fraterna e amorosa.
La vicinanza vivida dei suoi affetti sinceri ispirava nuova, subitanea, vigorosa linfa all’uomo che la Chiesa preparò alla carriera sacerdotale nel prestigioso Almo Collegio Capranica e la cui statura morale catapultò invece a vivere ultimo fra gli ultimi. La festa cominciò e le parole di Sardelli percorsero l’epopea di una stagione felice della lotta di classe, poi adombrò il pensiero per farlo volare agli ultimi di oggi, il suo volto tracciò una panoramica sui presenti e sillabò: «loro sono quel che noi fummo».
Alla fine della festa ero tra coloro che si recarono a casa sua, semplice e modestissima. Ci appartammo e prese a raccontare un’esistenza, ma poco dopo la voce e le forze iniziarono a scemare, ci interrompemmo, borbottò lamentele per la materia vitale che s’inabissava e non sosteneva idee ancora luminose. Non s’è più ripreso Roberto, e una notte di febbraio la Luna nebbiosa ha consegnato al cronista la pesantezza d’una montagna.
L’incontro di Damiano Tavoliere con don Roberto Sardelli è stato pubblicato su Alias del 22 dicembre 2018