Centosettantamila anni sono passati da quando, lontani dalle pretese di dominare la natura trincerandoci nel peccato originale dell’antropocentrismo, cercavamo spazio all’ombra del gigante buono che accarezzava l’erba della preistoria italiana: l’elefante. Questi fotogrammi di vita animale sono raccontati sul numero di gennaio/febbraio della rivista Archeologia Viva: a Poggetti Vecchi, nel Grossetano, sono riemerse le testimonianze di terme pleistoceniche in cui Palaeoloxodon antiquus e Neanderthal cercavano rifugio contemporaneamente per ripararsi dal gelo.

OSSA DEI PACHIDERMI vennero fuori nel 2012, quando il proprietario di un terreno collinare bagnato da una sorgente naturale decise di ricavarne uno stabilimento. Furono soprattutto zanne lunghe tre metri, rinvenute a oltre due di profondità, a giustificare lo scavo di emergenza che ha condotto alla ricerca appena divulgata dalle archeologhe Biancamaria Aranguren, della Soprintendenza della Toscana, Silvia Florindi e Anna Revedin, dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze.

ANALISI RADIOMETRICHE elaborate da un’équipe italo-francese hanno datato il sito intorno a centosettantamila anni fa, tra Pleistocene medio e superiore, quando era in corso la penultima glaciazione e le temperature medie erano più basse di sei gradi rispetto a oggi. La Maremma, tra i monti di Vetulonia e il colle di Roselle, era allora ombreggiata da querce e frassini, che proteggevano uri, cervi rossi e caprioli, come dimostrano i fossili identificati. Tra questi si segnalano i resti di sette elefanti, forse appartenenti a un’unica famiglia, venuti sul posto per ritemprarsi con l’acqua termale, senza immaginare che presto sarebbero morti di fame.

LA SORPRESA PIÙ GRANDE, però, è rivelata dalla presenza di circa 250 schegge litiche usate dai Neanderthal per la lavorazione del legno e per la macellazione delle carcasse di quegli elefanti, alti quattro metri e pesanti anche dieci tonnellate.
Dato ancora più eccezionale, in quegli stessi strati si sono conservati anche una cinquantina di frammenti di legno di bosso grazie alla protezione offerta dall’acqua: quel che resta di bastoni ricurvi lunghi circa un metro, con la parte più grossa arrotondata per consentire l’impugnatura e l’estremità opposta smussata e in alcuni casi annerita per un uso intenzionale del fuoco. Si tratta probabilmente di digging stick: utensili di cui si servono ancora le comunità residuali di cacciatori-raccoglitori per scavare radici e tuberi.