«Il nostro messaggio? È molto semplice: siamo stanchi della guerra e vogliamo la pace». Il malik Akbar ha quasi 60 anni ed è un volto familiare per molti afghani: il suo tendone per la pace, piazzato prima davanti al consiglio di sicurezza della provincia di Logar, poi di fronte al nuovo parlamento di Kabul, da alcune settimane occupa una porzione di terra arida nel parco nei pressi dello stadio Ghazi, sull’altro lato della strada rispetto alla monumentale moschea di Eid Gah, nel quartiere Pul-e-Mahmoud della capitale. Sostiene di non voler fare politica, di non avere padrini né mandanti, di essere «soltanto un afghano e un musulmano che ha a cuore il futuro della propria nazione».

UN FUTURO che «dev’essere di pace: basta con la guerra!», scandisce con forza mentre ci mostra l’interno della tenda, tappezzato di bandiere con il tricolore afghano e colmo di materassi e lenzuola: «Sono per tutti coloro che vogliono unirsi a noi per chiedere la fine del conflitto».

Il malik Akbar rivendica di aver dato vita alla «madre di tutte le tende afghane per la pace», chiede di essere descritto come «un servitore del popolo e un portatore di pace». Crede nella forza del popolo. «Uniti, possiamo risolvere tutto». Quando lo abbiamo incontrato, alla fine di maggio, ci ha lasciato con un messaggio incoraggiante: «Il conflitto continua, certo, ma tanti piccoli segnali indicano una speranza che prima non c’era. Presto, qui a Kabul accoglieremo il corteo per la pace dell’Helmand».

 

Il malik Akbar davanti alla sua “tenda della pace” a Kabul (foto Giuliano Battiston)

 

Da ieri, a poche decine di metri dalla tenda dell’esuberante malik Akbar sostano proprio loro, i «marciatori per la pace». Partiti il 12 maggio da Laskhgar Gah, capoluogo della turbolenta provincia meridionale dell’Helmand, dopo un lungo e faticoso viaggio di circa 700 chilometri percorsi a piedi in 35 giorni hanno raggiunto ieri mattina Kabul, concludendo il viaggio nella grande moschea di Eid Gah. Tra loro ci sono giovani studenti, poeti, campioni di bodybuilding come Zmaray Zaland, lavoratori, contadini, meccanici, farmacisti. Gente come il ventiduenne Zahir Ahmad Senzani, che è cieco ma è riuscito a percorrere tutto il tragitto grazie all’aiuto dell’amico Inamulhaq Khetab.

ALLA PARTENZA ERANO IN 8, a Kabul sono arrivati in 70 circa. Il corteo ha attraversato province difficili come Helmand, Kandahar, Zabul, Ghazni, Wardak. Dovunque sono stati accolti da famiglie e comunità locali, ospitati nelle moschee, rifocillati al momento dell’iftar, quando con il calar del sole i musulmani durante il Ramadan possono interrompere il digiuno. Hanno spiegato le loro ragioni, ascoltato le storie del popolo e raccolto gli abbracci dei sostenitori: luoghi diversi, storie simili. Tutti, marciatori e non, hanno almeno un parente inghiottito dal baratro della guerra. Tutti, marciatori e non, invocano la pace.

ENTRANDO A KABUL, ieri i marciatori sono stati accolti con fiori, slogan di incoraggiamento e cure mediche. Il 27enne Mohammad Iaqbal Khaibar, uno dei promotori dell’iniziativa, ha sintetizzato il messaggio portato da Lashkhar Gah fino alla capitale: «Il popolo afghano ha il diritto di vivere in pace.

Chiediamo che resti unito e creda nella possibilità della pace». Ridicolizzati quando hanno annunciato l’intenzione di raggiungere a piedi Kabul, luogo delle istituzioni e del potere sordo e corrotto, da ieri sono degli eroi. Hanno raggiunto la meta dimostrando che, a dispetto di stragi e attentati, manifestare si può. Anche per la pace.

 

foto Afp

 

Non è un caso che siano arrivati a Kabul proprio ieri, a ridosso della tregua di tre giorni tra il governo del presidente Ashraf Ghani e i Talebani. I due principali attori domestici del conflitto hanno deciso di deporre le armi, almeno per 3 giorni, proprio perché spinti dalla pressione della popolazione, sempre più esasperata e insofferente.

GHANI HA AVUTO IL MERITO di azzardare la mossa, offrendo per primo una tregua unilaterale (poi prolungata), ma sono i Talebani a incassare i dividendi politici più significativi. Perché hanno dimostrato di essere uniti, perlomeno sul fronte militare, anche se resta da vedere se riusciranno a mantenere la stessa coesione quando siederanno al tavolo negoziale, quando ci sarà da decidere le fette di potere e di interessi da distribuire tra le varie shure (cupole) della galassia anti-governativa. E perché sono riusciti a stanare il nemico principale, finora riluttante a mettere la faccia nel negoziato, gli Stati uniti: il segretario di Stato Usa Mike Pompeo in una dichiarazione concordata con il presidente afghano Ghani ha detto che l’amministrazione Trump è pronta ad assumere un ruolo più rilevante nel processo di pace e a discutere il ritiro delle truppe straniere. Parole cruciali, che vanno incontro alle richieste dei Talebani.

La fine del conflitto rimane però lontana, nonostante gli appelli dei marciatori per la pace. Che ieri hanno tenuto una conferenza pubblica, mostrando grande maturità politica. Ai Talebani, ai militanti di basso e medio-rango, hanno mandato a dire: abbiamo visto il modo in cui, durante la tre giorni di tregua, avete fraternizzato con i vostri connazionali e perfino con i soldati, contravvenendo alle direttive dei vostri leader. Rimanete con il popolo, restate nelle città, non tornate nelle vostre trincee.

AI POLITICI DI KABUL, invece, hanno detto: conosciamo bene la vostra corruzione, il vostro disinteresse per la sorte della popolazione, il vostro arraffare denari, merci, capitali, contratti, aiuti internazionali. Restituiteli al popolo, mettetevi al servizio della gente.

Messaggi chiari, espliciti, efficaci. Come le prossime iniziative: una serie di sit-in davanti alle ambasciate di Russia, Iran, Pakistan, Cina. Perché «questa non è la nostra guerra, ma una guerra imposta dagli attori esterni», ci aveva detto il malik Akbar all’interno della sua grande tenda per la pace.