Lo sfacciato maschilismo del neo presidente Usa ha unito le donne di tutto il mondo, che ieri hanno manifestato in oltre 600 piazze dei cinque continenti. Ad accompagnarle, le comunità Lgbt, quelle per i diritti civili e molti uomini, che hanno sfilato in ogni paese, dall’Australia alla Nuova Zelanda, dall’America latina all’Europa. La «Women’s march» contro le discriminazioni di genere ha portato in piazza milioni di persone: a Parigi, a Berlino, a Roma, a Pristina (in Kosovo), a Buenos Aires, ad Accra (in Ghana), a Nairobi (in Kenya, dove si trovano le «radici» di Obama). Sono arrivate immagini persino dall’Antartico.

Milioni di berretti rosa, per riprendere i simboli lanciati dalle statunitensi, hanno unito la protesta contro le discriminazioni di genere a quella per la difesa dei diritti globali. Molti anche i cartelli contro la repressione e il militarismo, in una gara di creatività stimolata dal grottesco personaggio Trump.

Trump, «You are not my president», dicevano i cartelli in Australia e in Nuova Zelanda, moltiplicando il grido delle donne statunitensi. Migliaia di persone hanno sfilato a Sydney e a Melbourne, a Wellington e Auckland. In Sudafrica, qualche centinaia di persone ha marciato a Durban per dire che «nella nostra America, siamo tutti uguali».

A Parigi hanno sfilato almeno 7.000 persone chiedendo «respect pour les femmes américaines»: rispetto
per le donne americane, ferite dalle dichiarazioni e dai comportamenti del miliardario Usa. Marce di protesta anche in altre città francesi, e cartelli di solidarietà per «le sorelle nere, lesbiche e trans che dovranno vivere per quattro anni con un presidente che avversa i loro diritti e la loro esistenza».

Ad Amsterdam, circa 4.000 persone si sono scambiate «coccole gratuite» (free Hugs) davanti al consolato Usa. Alcuni hanno innalzato cartelli contro «l’odio, il razzismo, il sessismo e la paura», altre pancarte dicevano «Make America sane again», invitando l’America a tornare alla ragione. E ancora: «Donne, non oggetti», uno degli slogan della pagina Facebook da cui è partita la protesta delle donne statunitensi. Tra le «perle» vomitate da Trump nei mesi di campagna e prima, c’è stata infatti anche quella secondo cui «le donne sono dei begli oggetti», da prendere per la vagina.

A Ginevra, circa 2.500 manifestanti di ogni generazione hanno sfidato il freddo per gridare: «Ponti e non muri», per rivendicare la disobbedienza («la resistenza è un dovere quando l’ingiustizia diventa legge»), o per ricordare che «il cambiamento climatico è reale». A Berlino, i dimostranti (circa 700) si sono ritrovati davanti alla porta di Brandeburgo, di fronte all’ambasciata Usa, per gridare «Il popolo unito non sarà mai battuto». A Praga, il giovane cantautore Adam Misik, idolo dei giovanissimi, ha cantato «Let It Be», dei Beatles, ripresa da circa 300 manifestanti. E a Lisbona, diverse centinaia di persone, statunitensi e portoghesi hanno gridato davanti all’ambasciata Usa che «Trump è una vergogna per l’America» e «No alla violenza sulle donne». Dello stesso tenore le manifestazioni a Barcellona.

A Roma, oltre 500 le manifestanti che si sono ritrovate davanti al Pantheon insieme a numerosi uomini: per condividere i temi della «Women’s march», per dire «no alla guerra» (rete Wilpf), e ribadire il No alla violenza sulle donne, che ha di recente portato in piazza oltre 200.000 donne. Un movimento globale, che sta unificando i contenuti forti di un nuovo mondo in cammino, provando ad amplificare la voce di tutti i sud del mondo.

Anticipato dallo sciopero generale delle donne polacche, lo sciopero globale ha spinto tutte ad astenersi da ogni tipo di attività: in un’azione mondiale che ha raccolto la proposta delle donne latinoamericane, iniziata dalle argentine. Un’iniziativa che si ripeterà per l’8 marzo al grido di «Non una di meno» e che – per l’Italia – porterà a una nuova tappa il lavoro dei tavoli tematici nati dal 26 novembre e dal prossimo appuntamento di Bologna, il 4 e 5 febbraio.

Le donne latinoamericane sono state presenti anche ieri, coniugando i temi di genere a quelli della dignità, del lavoro, dei diritti umani e dell’antimperialismo. In Argentina, la protesta contro Trump si è unita a quella contro il miliardario presidente Macri, che governa a colpi di privatizzazioni e licenziamenti. Si è manifestato anche contro la visita del presidente messicano Peña Nieto e contro le basi militari Usa, già decise da Macri e Obama e di certo confermate da Trump.