In origine doveva essere una carovana che avrebbe raggiunto Malijevac, a ridosso del confine croato-bosniaco, ma le restrizioni riguardanti i viaggi all’estero hanno costretto al ridimensionamento dell’iniziativa di protesta contro le politiche dei respingimenti e le sue violenze organizzata dalla campagna «Lesvos calling». Attiviste ed attiviste da varie parti d’Italia, in particolare quelle sensibili agli attraversamenti come Como o Ventimiglia, sono confluite a Trieste per muovere da Piazza Libertà con un messaggio di solidarietà verso tutte le persone migranti e verso chi viene criminalizzato per le proprie attività solidali e di lotta. Presenti le varie realtà che su fronti di mare e di terra sono impegnate nell’accoglienza dei migrati e nella denuncia degli abusi subiti, e che spesso subiscono la persecuzione delle autorità giudiziarie: Mediterranea, la Linea d’ombra, Melting Pot le più conosciute ed estese, e poi tante realtà più locali che agiscono in maniera autogestita sul campo sanitario, legale, culturale.

La piccola carovana porta con sé del filo spinato a cui sono legate le immagini e i numeri della vergogna: corpi martoriati dal lungo cammino e dai pestaggi delle forze di polizia, i telefoni, ancora di salvezza per chi è in viaggio e in quelle condizioni, sequestrati e distrutti, i numeri, elevatissimi, degli uomini, delle donne e dei bambini che vengono respinti ai vari confini: 1400 sul confine italo -sloveno solo nel 2020; tra dicembre 2019 e ottobre 2020 sono stati accertati sul totale dei confini più di 21mila pushback, il 75% con abusi, violenze e torture.

«I confini sono dei dispositivi micidiali, distruggono i diritti e torturano i corpi»: l’’iniziativa si inaugura con le parole di Lorena Fornasir , che con il marito Gianandrea Franchi si prende cura dei migranti della rotta balcanica, offrendo quel riconoscimento che gli stati negano: dopo una perquisizione nella loro casa, sede dell’associazione «La linea d’ombra» e un fermo, ora sono sotto accusa per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ciononostante non hanno mai smesso offrire oggi giorno cibo e vestiti ai migranti, a curare le loro ferite.

Lorena conosce uno per uno i nomi e le vicende di queste persone che il respingimento indiscriminato priva di un’identità, di una storia, oltre che dei diritti. Parla di Omar, torturato dalla polizia croata fino a quasi perdere l’uso di una gamba, di Karim, con la schiena fustigata, Bilal , respinto nonostante la cicatrice che porta sulla gola procurata dai talebani. «Una volta che tu conosci la barbarie dei confini non puoi continuare a far finta di niente. Noi siamo li, ogni giorno, con i cerotti, le creme, i panini, i vestiti. Anche quando i ragazzi non ci sono. E quando non ci sono è un brutto, segno, vuol dire che qualcosa è successo in quei boschi. Il flusso in questo periodo è diminuito», continua. «Le ragioni sono varie, una di queste è che queste persone vengano fermate prima di arrivare in Italia, quindi anche se la giustizia condanna i respingimenti in Italia, questi vengono operati in Slovenia e in Croazia».

La tappa successiva è il consolato della Croazia e infine il valico italo-sloveno di Pesek. Qui inizia la catena di respingimenti dei migranti: le persone vengono intercettate dalla polizia italiana e poi consegnate alla polizia slovena, successivamente rimesse nelle mani della polizia croata e bosniaca. Nel mentre subiscono maltrattamenti e abusi fisici. L’Italia è in prima fila in questa pratica illegale: proprio a Pesek il Tribunale di Roma ha recentemente stabilito sia avvenuto un respingimento di un cittadino pakistano in palese violazione delle norme di accoglienza internazionali ed europee.

A suolo rimane una scritta, in inglese «basta respingimenti, rifugiati benvenuti» e la promessa di non demordere nella resistenza e nella denuncia, nonostante sia davvero difficile incidere su quello che è una politica condivisa in tutta Europa. Ma come dichiara Andrea, il compagno di Lorena: «o resistiamo e lottiamo, o siamo dei cadaveri viventi».