Un doppio arcobaleno incrociava il cielo di giovedì sera al passaggio del corteo funebre che dalla camera ardente dell’Union Buildings accompagnava la salma di Nelson Mandela verso il Military Hospital, tra la gente accorsa per la seconda volta a salutarlo dal ciglio della strada.

Ieri mattina alle 4 erano già in 4-5000 in fila al campus dell’University of Pretoria in attesa di raggiungere i controlli della polizia, montare su uno degli autobus della City To City, della TransLux o della City of Tshwane e finalmente riprendere la fila verso i cancelli dell’Union Buildings e una volta all’interno incamminarsi per dare l’addio all’amato Tata. In molti, non hanno mai lasciato il campus o si sono accampati lì già dalle 8 di sera dopo due giorni di tentativi non riusciti.

Un percorso obbligato, predisposto dai piani della sicurezza pubblica per evitare che la fiumana umana si riversasse come uno tsunami verso il centro della città. In centinaia hanno passato la notte sul prato per assicurarsi la certezza di raggiungere la camera ardente dopo che il giorno prima la chiusura anticipata li aveva fermati a un passo dall’entrata.

Una fila che non finisce più, a piedi, a bordo degli autobus, a centinaia, che una volta a ridosso di Government Street convergono dalle traverse parallele, come East Avenue e Beckett Street, e si arrestano in un ingorgo ordinato in fila indiana di fronte alla polizia, per poi passare uno a uno diretti verso i parcheggi.

Decine di migliaia di anime umane sotto gli ombrelli colorati per ripararsi dal sole spietato, da Florence Ribeiro Road in Sunnyside, lungo Pretorius Street, verso Du Toit, Stanza Bopape Street e Hamilton Street. Arrivano da Soweto, da ogni sobborgo di Pretoria, da Johannesburg, dalle province del Mpumalanga, del Limpopo, dalla Nigeria e dalla Namibia. Gente di tutte le età, vecchi uomini in giacca e cappello, donne di mezza età e oltre, figlie delle tante, diverse e sfaccettate culture africane, fiere e regali nel portamento, la povera gente accanto alla classe media, veterani dell’African national congress, giovani bianchi che hanno vissuto con consapevolezza solo la coda del regime e i cosiddetti born free, i nati liberi nel post-apartheid, quando con Mandela un’altra storia cominciava.

«Siamo qui per dire grazia Tata, ci hai cambiato la vita – dice Debbie M -. Prima di Madiba se mi avessero sorpreso a parlare con un bianco come te mi avrebbero arrestato. Era contro la legge. Eravamo divisi: bagni pubblici separati, scuole separate, tutto a parte. Con Madiba questo è finito». «Eravamo stranieri in casa, immigrati nel nostro Paese – ci dice Tambo -. Io sono qui per dire grazie Madiba, ora siamo tutti liberi di camminare insieme, di muoverci ovunque senza un lasciapassare. Prima invece tre mesi a Pretoria, la città dell’apartheid, e poi, se eri ancora senza un lavoro, di nuovo a casa per un altro timbro sul visto. Eravamo questo prima del 1990. Terre e case separate».

Da sola, minuta, distinta in un tailleur beige di cotone, una donna sulla sessantina si lascia avvicinare. Grandi occhiali neri le coprono le lacrime: «Sono tornata a studiare da adulta grazie a Madiba». Si chiama Mapitso e viene da Rustenberg: «All’età di 45 anni ho varcato la soglia dell’università per studiare logopedia. È l’ultima occasione che ho per dirgli grazie. Ha passato 27 anni in carcere, il minimo che possiamo fare sono queste ore di fila».

Tra la folla incontriamo anche Sam Nzima: «Ero un reporter – racconta -, lavoravo per The World. C’erano due testate del lo stesso editore, una era The World, per i neri, l’altro era The Star, per i bianchi. Ai black The World, ai bianchi The Star, e naturalmente a ciascuno la sua notizia. Fui arrestato per aver pubblicato su The World la foto del bambino nero ammazzato dalla polizia durante i disordini del 1976».

Verso metà mattinata lasciamo la fila del popolo di Mandela e attraverso l’entrata per i privilegiati della stampa ci infiliamo nei giardini dell’Union Buildings. Strada facendo incontriamo Lerato M., uno dei tanti lavoratori occasionali, mentre svuota i cassonetti dei rifiuti: «Il giorno in cui Madiba è stato rilasciato ero a casa, a Johannesburg, insieme a mio fratello. Eravamo felici e terribilmente euforici. Ieri ho reso omaggio alla salma. Ho provato tanta tristezza e nella mia mente un brusio di emozioni, non ero in grado di carpire alcun pensiero… Solo tanta tristezza perché non c’è più».

Il lungo cammino verso Mandela non è mai finito. Per tre lunghi giorni a partire da mercoledì scorso un serpentone di gente che ricorda quello di Soweto delle elezioni del 1994, le prime democratiche in Sudafrica, si ingrassa e si allunga sulla via per Madiba verso l’Union Buildings di Pretoria. È l’ultima occasione per incontrare, per molti è anche la prima volta, il leader e il combattente della libertà. L’ultima opportunità per l’incontro con la storia passata che se ne va, con un’era che si chiude con l’addio a Madiba. In migliaia, sotto un sole africano cocente.

La morte di Nelson Mandela ha dato al Sudafrica delle diversità culturali e razziali non ancora del tutto all’unisono, un’altra opportunità. Nel cammino di questa gente in fila, c’è tutta la storia della sua lotta per la liberazione mano nella mano con Nelson Mandela, Oliver Tambo, Joe Slovo, Walter Sisulu, Chris Hani e Stephen Biko, il giovane leader del Black Consciousness Movement ammazzato in carcere dal regime. Loro che danno i nomi anche alle migliaia di morti ammazzati in nome dell’apartheid. Qui a Pretoria oggi questa gente in cammino nell’ultimo giorno prima dei funerali di stato nel paesino di Qunu di domenica prossima, è la metafora del Sudafrica che celebra la sua rinascita. È il trionfo dell’Africa libera, in cammino verso se stessa.