A poco più di otto anni di distanza dal golpe del marzo 2012, il Mali si trova a rivivere un nuovo colpo di stato, il quarto della sua storia. Come otto anni fa, la guarnigione militare di Kati, principale campo delle FAMa (Forces Armées Maliennes) alle porte della capitale Bamako, ha fatto da teatro all’ammutinamento di un gruppo di militari. Guidati da alti ufficiali dell’esercito, la mattina del 18 agosto i soldati si sono diretti verso la capitale, dove diversi politici di primo piano – in primis, i ministri delle Finanze e della Difesa e il presidente dell’Assemblea nazionale – sono stati arrestati.

ACCOMPAGNATA da manifestazioni di sostegno della popolazione e dal silenzio surreale del governo e della televisione di stato, l’avanzata dei militari golpisti ha preso di mira il cuore stesso del regime, senza incontrare alcun tipo di resistenza. In seguito all’arresto del primo ministro Boubou Cissé, i membri dell’esercito si sono diretti verso la residenza del presidente della Repubblica, Ibrahim Boubacar Keïta (IBK), che ha accettato di consegnarsi ai militari, pare anche su suggerimento di alcuni capi di stato africani. Condotto alla guarnigione di Kati, il presidente, eletto nel 2013 e confermato nel 2018 per un secondo mandato, ha annunciato le sue dimissioni e lo scioglimento dell’Assemblea nazionale.

Gli ufficiali del Comité National pour le Salut du Peuple (CNSP) hanno infine assicurato l’avvio di una transizione politica e il ripristino di uno stato di diritto funzionante.

Benché l’intervento dei militari abbia introdotto un elemento di complessità in uno scenario già profondamente instabile, la crisi politica a Bamako affonda le sue radici in un contesto di grave perdita di legittimità da parte di un regime segnato da scandali di corruzione, incapace di assicurare una governance efficace, percepito come interessato esclusivamente a perpetuare potere e posizioni di privilegio: una situazione, quella attualmente in vigore nella capitale, che per molti versi appare ancor più compromessa di quanto non fosse nel 2012, in termini di legittimazione delle istituzioni statali e di disconnessione tra le élites al governo e la popolazione.

L’INSODDISFAZIONE dell’esercito per la mala gestione della situazione securitaria nel centro e nel nord del paese, dove si combatte contro diverse formazioni jihadiste, e un’allocazione di risorse alla Difesa giudicata insufficiente, avevano alimentato i timori di un possibile colpo di stato a Bamako già dallo scorso anno. La situazione di instabilità seguita alle controverse elezioni legislative di marzo 2020 – tenute nonostante la crisi sanitaria e il rapimento del principale esponente di opposizione, Soumaila Cissé, da parte di gruppi legati all’insurrezione jihadista – e l’escalation di proteste guidate da una coalizione di partiti di opposizione ed esponenti della società civile, il Mouvement du 5 juin – Rassemblement des Forces Patriotiques (M5-RFP), ha contribuito a precipitare il corso degli eventi.
Pur rappresentativi di istanze e interessi in parte divergenti, militari golpisti e opposizioni politiche sembrerebbero essere stati uniti dalla volontà di destituire il regime di IBK, accusato non solo di non aver saputo arginare corruzione e cattiva gestione della cosa pubblica, ma di averle anzi aggravate.

SECONDO FONTI LOCALI, nella stessa, convulsa giornata del colpo di stato a Bamako, i capi militari del CNSP e i leader del M5-RFP si sarebbero incontrati: questo accrediterebbe le ipotesi di una transizione politica che coinvolga il movimento di protesta e i suoi uomini più rappresentativi, a partire dal popolare imam salafita Mahmoud Dicko, vero uomo forte dell’opposizione al regime di IBK.

La tempistica del colpo di stato militare, a ogni modo, non manca di sollevare interrogativi. Risale, infatti, a una settimana fa la pubblicazione di alcuni stralci di un rapporto Onu che accusa alti funzionari militari di aver agito per sabotare il processo di pace nel nord e di essere co-responsabili di diversi massacri etnici nel centro del paese, compiuti da milizie filo-governative e costati la vita a centinaia di persone.

BENCHÉ LA STAMPA pro-regime si fosse immediatamente posizionata in difesa degli ufficiali accusati, sembra che IBK avesse richiesto sotto traccia le dimissioni di alcune figure legate agli ambienti militari. Questo spiegherebbe alcune delle dinamiche sottese al golpe, e costituirebbe senz’altro una chiave di lettura del ruolo primario esercitato dalle alte gerarchie di un’istituzione che resta profondamente eterogenea al suo interno, attraversata da lotte di potere e fedeltà politiche differenziate, e soprattutto percepita diversamente nelle differenti regioni del paese: screditata al nord e nelle aree interessate dalle insurrezioni jihadiste, dove è accusata di abusi e violazioni nei confronti delle comunità locali, popolare e largamente apprezzata nella capitale, nonostante gli episodi di violenta repressione delle proteste occorsi nel luglio scorso.

LA DESTITUZIONE DEL REGIME di IBK sancisce il fallimento evidente delle strategie di peace-building e gestione del conflitto definite e attuate dalla comunità internazionale in Mali. Per la prima volta nella storia, un colpo di stato si verifica in presenza di una missione di stabilizzazione delle Nazioni unite, la MINUSMA. I programmi di formazione e addestramento posti in essere dall’Unione europea, dalla Francia, dagli Stati uniti o dall’Onu, che hanno riguardato l’intero esercito maliano, non sono serviti a professionalizzare adeguatamente l’istituzione militare, né a scongiurare il rischio di un nuovo sovvertimento incostituzionale dello status quo. La Francia, attore preminente nel paese e nella regione saheliana, ha assicurato sostegno politico al regime di IBK, nonostante i chiari segnali di delegittimazione di quest’ultimo, in presenza di una delle più gravi crisi politiche nella storia recente del paese. A pesare, presumibilmente, l’idea che IBK avrebbe rappresentato l’ultimo argine politico all’ascesa dell’imam Dicko, figura carismatica e “di rottura” rispetto a una classe politica immutata da decenni e ormai completamente estranea alle dinamiche reali del paese, nonché al pericolo di fare del Mali uno stato islamico sotto la guida dei religiosi salafiti.

DA QUESTO PUNTO DI VISTA, al di là delle condanne di rito, l’ascesa dei militari potrebbe rappresentare un elemento non del tutto sgradito alla Francia e ai partner internazionali di Bamako, se come annunciato le posizioni degli ufficiali golpisti dovessero effettivamente reiterare il totale sostegno alla presenza militare esterna nel paese e alla partecipazione del Mali alle iniziative multilaterali, a partire dal G5 Sahel. In tal senso, le divergenze di agenda degli attori militari e delle opposizioni politiche – che hanno, negli scorsi mesi, affermato la necessità di ridimensionare le presenze (e le ingerenze) internazionali nel paese – restano ampie. Solo una cosa appare chiara: la transizione da un gruppo di potere a un altro col sostegno della comunità internazionale è quanto è già stato tentato nel 2013, dopo il precedente colpo di stato e la vittoria alle presidenziali di IBK, mentre oggi soluzioni di compromesso non sembrano più rappresentare un’opzione credibile nel mutato contesto politico e securitario maliano.

Le prossime settimane saranno cruciali per capire quale direzione prenderà la transizione e quali scenari potranno delinearsi per il futuro del Mali.