Sembra tornata la calma in Mali, almeno in apparenza. Nella giornata di lunedì, in un comunicato congiunto, i rappresentanti dell’Unione Africana, della Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale (Cedeao), delle Nazioni Unite e dell’Ue in Mali hanno «espresso preoccupazione per la situazione nel paese, hanno condannato fermamente qualsiasi forma di violenza come mezzo per risolvere la crisi e hanno invitato tutte le parti a mostrare moderazione di fronte ai recenti disordini a Bamako».

Tra venerdì e sabato, infatti, la capitale del Mali è stata teatro di violenti scontri con migliaia di manifestanti che hanno occupato numerosi edifici pubblici, il parlamento e la televisione di stato e con la violenta repressione della polizia che ha causato la morte di almeno 11 persone e 124 feriti, secondo fonti ufficiali. Quella di venerdì è stata la terza grande manifestazione organizzata in meno di due mesi dalla coalizione del “Movimento 5 giugno”, composta da leader religiosi, politici e società civile, che ha sfidato il presidente Ibrahim Boubacar Keita (Ibk), al potere dal 2013.

Il Movimento 5 Giugno canalizza una moltitudine di insoddisfazioni in uno dei paesi più poveri del mondo, per il degrado della sicurezza e l’incapacità di affrontarlo, la crisi economica, il diffuso discredito delle istituzioni sospettate di corruzione, e la gestione deficitaria del presidente in questi anni. Un movimento di protesta guidato dall’imam Mahmoud Dicko che fa temere ai partner del Mali – Francia in testa – una disintegrazione del paese già colpito in questi anni dalla piaga dei gruppi jihadisti di Al-Qaeda (Jnim) e dello Stato Islamico (Eigs) e, più recentemente, da un progressivo peggioramento delle violenze interconfessionali.

La scorsa settimana una missione di diplomatici della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao) aveva proposto una mediazione tra le parti e aveva richiesto al presidente Keita «di indire nuove elezioni nei seggi contestati» in occasione del voto parlamentare che si è svolto in due turni, il 29 marzo e il 19 aprile, come primo passo di riconciliazione prima della creazione di un governo di unità nazionale e della nomina di un nuovo premier.

«Oggi è difficile fermare questa ondata di protesta- ha dichiarato l’analista politico Baba Dakono all’agenzia Afp – le forze di sicurezza hanno cercato di decapitare il movimento con violenze e arresti, come fanno nel resto del paese, ma l’unica soluzione per sbloccare questa crisi politica è quella del dialogo».

Deboli messaggi di dialogo che provengono da entrambe le parti, come un ultimo tentativo di non far implodere il paese. Questa domenica l’imam Mahmoud Dicko ha invitato i suoi sostenitori a continuare le proteste pacificamente, senza cadere nelle provocazioni e nelle violenze delle forze di sicurezza maliane e invitando il presidente Ibk a «organizzare nuovi incontri con il movimento per trovare una soluzione pacifica della crisi politica». Nonostante le dichiarazioni di Dicko, però, il movimento richiede a gran voce le dimissioni del presidente Keita.

 

Il presidente maliano Ibrahim Boubacar Keita (Ap)

 

Da parte sua, lo stesso presidente Ibk ha accettato la mediazione della Cedeao e ha liberato tutti i leader della protesta arrestati durante gli scontri. «Ho deciso di abrogare il decreto che nomina i restanti membri della Corte costituzionale e passare all’attuazione delle raccomandazioni derivanti dalla missione di Cedeao – ha dichiarato lunedì Keita alla televisione nazionale – per la formazione di una nuova corte che ci aiuti a trovare soluzioni alle controversie derivanti dalle elezioni legislative». Il presidente maliano ha, però, annunciato che le forze di sicurezza non esiteranno «a rispondere a nuove violenze da parte dei manifestanti» e non ha prospettato nessuna possibilità riguardo alle sue dimissioni.

Segnali di riconciliazione necessari, secondo il segretario dell’Unione Africana, Moussa Faki, per «evitare un’ulteriore escalation delle proteste che rischiano di compromettere inesorabilmente una regione già tormentata dalle milizie jihadiste e di travolgere anche Burkina Faso e Niger, paesi afflitti dagli stessi fenomeni» ha concluso Faki.