Tre giorni appena. Con largo anticipo sui dieci annunciati inizialmente, tanto è bastato alla polizia greca per smantellare l’ultimo avamposto della disperazione migrante e della vergogna europea.

Da ieri il campo di Idomeni è una landa deserta e desolata dove ruspe, bulldozer e camion lavorano già a pieno ritmo per rimuovere ogni traccia del passaggio delle oltre 10mila persone in fuga da guerre e povertà. Sul terreno rimangono solo oggetti e segni di vita strappati alla speranza: cataste di coperte, tende ancora montate, taniche di acqua vuote, teli, vestiti, cassette di plastica, passeggini, legna, immondizia, macerie e quant’altro. Da oltre la rete del confine, la polizia di frontiera macedone assiste allo smantellamento del campo non nascondendo un qualche sollievo. Stavolta è finita per davvero, sembrano dire con lo sguardo.

Secondo fonti ufficiali della polizia, fino a mercoledì sera erano stati trasferiti nei siti istituzionali tra i 3.000 e i 3.500 migranti divisi in 62 pullman. Altri sono partiti ieri mattina, per un totale di 5.000 persone in tutto. Ne mancano all’incirca ancora 1.500, per le quali si provvederà a stretto giro di pullman. Rimosso anche il vagone abbandonato sui binari che era diventato il simbolo della resistenza di Idomeni, fino all’ultimo atto del 18 maggio scorso quando era stato spostato a spinta nell’estremo tentativo di sfondare il confine chiuso. La compagnia Trainsose che gestisce la rete ferroviaria ha mandato intanto gli operai per la manutenzione dei binari. La normale circolazione della linea sarà ripristinata entro ventiquattr’ore, inaugurata in realtà già da ieri da un primo convoglio-merci in transito dopo oltre due mesi di stop.

Il vento alza la polvere nel campo, sollevando con sé altre incognite sul destino delle oltre 30mila persone rimaste intrappolate nella Grecia settentrionale. Sul posto è arrivato ieri anche il vice-ministro della Protezione civile (ministero dell’Interno), Nikos Toskas, per seguire le operazioni da vicino. «È andato tutto come previsto e nel rispetto dei diritti umani», ha dichiarato. «Non siamo stati noi a impedire a queste persone di proseguire il loro cammino verso la mèta desiderata. Non è stata la Grecia a erigere recinti. A noi è toccato gestire una situazione di emergenza. Rispettare i diritti umani non significa lasciare che migliaia di persone vivano nel fango», ha aggiunto, per poi confermare l’esistenza di un numero imprecisato di persone che si è allontanato nei giorni scorsi da Idomeni per raggiungere altre destinazioni.

Centinaia se non migliaia, addirittura 3.000 secondo il quotidiano greco Efimerida ton Syntakton. I numeri si rincorrono senza che nessuno sia in grado di dare loro una conferma, di fatto le cifre ufficiali qui non coincidono quasi mai con il dato reale e la forbice del sommerso non può che mantenersi ampia.

Non è il flusso dei mesi scorsi ma ugualmente si vedono persone camminare lungo l’autostrada. Per il momento alcuni hanno trovato un riparo temporaneo nell’attiguo Hotel Hara o a Eko Station, distante una decina di chilometri, dove ai volontari è ancora consentito di svolgere la loro attività di supporto e di distribuzione di cibo e di beni necessari. Altri potrebbero vagare in direzione ignota, mentre chi è ancora in possesso di qualche risorsa è riuscito ad allontanarsi prendendo un taxi. Nei campi governativi nessuno di loro ha intenzione di andare e preferiscono perciò spostarsi da un sito all’altro. Finito il tempo dell’attesa, per queste migliaia di persone si apre ora un periodo d’incertezza. Dopo Idomeni, vige l’ordine imperativo di smantellare ogni campo illegale, sebbene non sia dato sapere quando cominceranno le operazioni.

A evacuazione semi-conclusa, la polizia greca ieri ha finalmente permesso l’ingresso ai giornalisti lasciati per due giorni digiuni di notizie. La stessa televisione pubblica Ert, unica accreditata a seguire le operazioni di sgombero dall’interno, nella giornata di mercoledì aveva posto in secondo piano Idomeni, presa dalla notizia del rifinanziamento e ristrutturazione del debito greco decisa in sede di Eurogruppo. Dal ciglio dell’autostrada a piccoli gruppi veniamo fatti accomodare dentro un pulmino delle forze dell’ordine, in un transfert che sa di deportazione.

«Kalì koinonia», ossia «buona società», dicono i colleghi greci, così come si usa augurare a chi è appena uscito di prigione. Una volta scesi veniamo condotti dietro a una transenna vicino alla ferrovia. Non ci è permessa libertà di movimento né nessun contatto con i rifugiati ancora al campo di cui, per quel che ci è consentito osservare, non ne scorgiamo nemmeno l’ombra.

Peggio è andata ai fotoreporter che nel tardo pomeriggio di mercoledì erano presenti al sit-in improvvisato da un centinaio tra rifugiati e volontari sull’autostrada all’altezza dell’Hotel Hara. Durante una carica di alleggerimento della polizia al fine di rimuovere il blocco, alcuni di loro sono stati minacciati di arresto e, almeno uno, malmenato alla vista delle macchine fotografiche. «Andate via, no camera», gli hanno gridato contro. Un atteggiamento grave, che apre ulteriori dubbi sulla strategia mediatica di non intromissione adottata dal governo greco nei giorni scorsi.