Il novembre del 1944 fu particolarmente freddo. I gruppi partigiani formatisi dopo l’8 settembre del 1943 si apprestavano a vivere il secondo inverno, mentre le formazioni costituitesi nella primavera e nell’estate del ‘44 avvertivano il primo freddo. La neve quell’anno era caduta presto e abbondante, il trasporto delle armi e il rifornimento di cibo cedevano al peso reso instabile dalla neve soffice, e i partigiani avevano i geloni ai piedi per le tante ore passate in mezzo alla neve. In val di Cogne il 7 luglio del 1944 si era costituita la repubblica partigiana, un affronto per le truppe nazifasciste, che sul finire di ottobre decisero di sferrare un colpo mortale a quell’esperienza di libertà, sostenuta apertamente dalla popolazione civile, accerchiando l’intera vallata. Nella notte tra l’1 e il 2 novembre, le truppe partigiane concentrate a La Nouva respinsero con grande coraggio l’attacco, fino a costringere i nazifascisti ad arretrare verso il fondovalle. Le gravi perdite e la mancanza di armi resero improbabile ogni possibilità di reggere un secondo attacco dei nazifascisti, forti di ulteriori rinforzi sopraggiunti. Inoltre ad essere gravemente in pericolo era la popolazione civile, perciò il comando generale della repubblica partigiana della val di Cogne decise di lasciare la valle e a mezzanotte del 2 novembre 350 tra partigiani e civili si spostano in Valnontey per raggiungere il rifugio Sella, collocato a 2584 metri, oggi il paradiso degli stambecchi. La notte seguente raggiunsero il Colle Lauson a 3296 metri, per scendere in Valsavarenche al ponte di Eaux-Rousses a 1666 metri, poi a Pont per proseguire lungo il ripido vallone che conduce al pianoro del Nivolet. Dopo una giornata di marcia e riposati poche ore, al calar della notte i partigiani della val di Cogne, ai quali si erano uniti quelli della Valsavarenche, si rimisero in marcia, nonostante una tormenta di neve, per raggiungere il rifugio Savoia a 2532 metri. All’alba del 5 novembre, preceduti dal comandante partigiano Giuseppe Cavagnet, capo della banda Verraz, e da Roberto Robino, che insieme a un contingente di uomini avevano il compito di aprire la strada tra la neve alta, la colonna dei partigiani riparte, percorre ripidi canaloni e si porta al Colle dell’Agnello fino ad arrivare, il 5 novembre, al Passo del Galisia a 3002 metri. Qui stremati dalla stanchezza e privi di cibo, stretti nella morsa del freddo, morirono assiderati 12 partigiani e 24 ex prigionieri inglesi, che si erano uniti alle formazioni partigiane. Dal Passo Galisia per il gruppo dei partigiani inizia la discesa verso il rifugio Prariond attraverso Maupasset fino a Le Fornet in Val d’Isère, dove la sera del 6 novembre, dopo quattro giorni di ininterrotto cammino, finisce la lunga marcia bianca dei partigiani della Val di Cogne e della Valsavaranche.
Quelle esperienze partigiane tra le montagne, vissute in nome della libertà e a caro prezzo, dalla Val d’Aosta fino ai mugari del Trentino, i montanari della zona del Pino Mugo, produssero grandi alpinisti come il comandante partigiano bellunese Attilio Tissi del Partito d’Azione, Federico Chabod, figura di primo piano della Resistenza valdostana e primo presidente della regione Valle d’Aosta, raffinato alpinista che ebbe come compagno di cordata il musicologo comunista Massimo Mila, quest’ultimo compendiò i suoi articoli e saggi nel volume Scritti di montagna (Einaudi, 1992). Eccellente alpinista fu anche Leopoldo Gasparotto, capo della struttura militare del Partito d’Azione lombardo, che durante la Resistenza assunse il nome di battaglia Rey, in omaggio a Guido Rey, ritenuto il pioniere dell’alpinismo italiano. All’esponente del Pd’A, Ruggero Meles ha dedicato un libro, Leopoldo Gasparotto. Alpinista e partigiano. Tra i grandi scalatori non poteva mancare Gino Soldà, che prese parte alla spedizione italiana che nel 1954 conquistò il K2. Soldà con il nome di battaglia Paolo, fu attivo nella Resistenza tra Recoaro e Schio nel gruppo partigiano «Valdagno».
Tra i più famosi c’è Riccardo Cassin, capace di scalare una parete di sesto grado, sua la punta del Grand Jorasse ( 4.205m) della catena del Monte Bianco. Nel 1958 fu capo della spedizione italiana impegnata nella conquista del Karakorum, e nel 1961 guidò la conquista dalla parete sud del Mc Kinley. Per Riccardo Cassin alpinismo e Resistenza furono tuttuno: «Il 26 aprile del 1945 affrontammo trecento uomini delle Brigate Nere ben armati che tentavano di raggiungere la colonna di Mussolini nell’Alto Lario. Nei primi scontri cadde Alfonso Crotta, poi Vittorio Ratti con il quale avevo effettuato due belle prime: sulla nord della cima ovest della Lavaredo e sulla nord est del Badile. Venni ferito la mattina del 27 aprile mentre dalla massicciata della ferrovia sparavo con il bazooka sui repubblichini asserragliati in un caseggiato. Il gruppo dei Rocciatori chiuse la sua attività con la grande sfilata del 6 maggio a Milano. Non ci sentivamo eroi, ma solo uomini liberi che finalmente potevano tornare a essere solo alpinisti». Il rapporto tra montagna, Resistenza e libertà fu indissolubile: «In montagna si va per essere liberi. Se togli la libertà, l’alpinismo, quello vero, non esiste più» dirà Bruno Detassis, autore di oltre duecento via nuove, per spiegare perché il suo amico Ettore Castiglioni, grande alpinista non poteva che essere anche un profondo antifascista.