Qui non si fa in tempo a piangerli i morti, che se ne aggiungono altri: un’altra drammatica esplosione a pochi giorni dal primo anniversario di quella al porto che ha causato più di 200 vittime, oltre 6mila feriti e 300mila sfollati.

Villaggio di Al-Tleil, Akkar, nord, la regione libanese più povera e abbandonata a se stessa, confine con la Siria con cui si traffica e contrabbanda.

Sono le prime ore di domenica 15 agosto quando un deposito illegale di carburante esplode uccidendo 29 persone – accertate al momento – e ferendone una ottantina. Il fatto di per sé drammatico va inserito nel contesto della crisi del petrolio, aggravatasi pesantemente in queste ultime settimane e in quel tessuto socio-economico clientelare e corrotto su cui è incardinato il Libano.

Sabato mattina un gruppo di attivisti scopre il deposito di circa 20mila litri di proprietà di un noto imprenditore, George Rachid, con forti legami politici. Interviene l’esercito e ne viene lasciato metà alla popolazione.

Nella notte la tragedia, le cui cause sono ancora da definire: scontri per l’approvvigionamento, ma c’è anche l’ipotesi che il figlio di Rachid abbia sparato colpi di pistola per disperdere la folla e che avrebbero provocato l’incendio, secondo alcune testimonianze.

Giovedì scorso il discusso governatore della Banca centrale Riad Salameh aveva annunciato che non sarà più in grado di calmierare il prezzo della benzina, già razionata e che aveva già subìto un aumento del triplo nei mesi scorsi. «Nessuno sta governando il paese (…). Siamo pronti a spendere le riserve obbligatorie (della banca): fate una legge, servono cinque minuti», le sue invettive.

Il settore dell’energia totalmente prodotta a diesel era già mal funzionante prima della crisi. La partecipata pubblica-privata Elettricità del Libano non soddisfa il fabbisogno nazionale, per cui una miriade di generatori privati dalla gestione quantomeno dubbia – la gente ne parla come di «mafia dei generatori» – sorgono in ogni dove.

Da mesi le ore di buio totale sono in continuo aumento: ora si contano per semplicità le pochissime ore di luce al giorno. La crisi della benzina e dell’elettricità ha paralizzato tutto l’indotto dei trasporti – che in Libano sono solo su gomma – e qualsiasi settore, inclusa la filiera alimentare: si fa la fila pure per il pane.

Non c’è benzina nemmeno per le ambulanze e il Centro medico dell’Università americana di Beirut ha denunciato pubblicamente «il governo e le autorità totalmente responsabili della crisi e della conseguente catastrofe umanitaria. (…) L’Aubmc affronta un imminente disastro (…) a causa della mancanza di carburante. Ventilatori e altri apparecchi salvavita smetteranno di funzionare. 40 adulti e 15 bambini moriranno immediatamente. 180 persone che soffrono di scompensi renali moriranno in pochi giorni senza dialisi. Centinaia di pazienti di cancro moriranno nelle prossime settimane per mancanza di cure adeguate». Da mesi non si trovano più medicinali, anche quelli più essenziali.

L’ex-premier designato Hariri ha chiesto le dimissioni del presidente Aoun dopo l’esplosione. Il neo premier incaricato Mikati ha annunciato invece l’imminente formazione del governo, il cui tentativo fallisce da quando un anno fa il premier Diab si è dimesso dopo il disastro al porto.

Un nuovo governo sbloccherebbe in teoria fondi internazionali chepotrebbero alleviare la crisi, a detta di tutti peggiore di quella della guerra civile (1975-90). Intanto le richieste di passaporti sono passate da 300 a 7mila al giorno per lasciare quello che assomiglia sempre di più a un girone dantesco.