Millecinquecento maschere minacciose occupano lo spazio, serrate in file come fossero un esercito, mentre intorno scorrono in led migliaia di cognomi mapuche che resistono alla cancellazione forzata di un popolo: il Cile con Bernardo Oyarzun sceglie di rendere omaggio ai suoi amerindi bistrattati e non è l’unico ad annaffiare le proprie radici per farle rinverdire.

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FRA I PADIGLIONI nazionali (con la novità che la Biennale lambisce ora anche Forte Marghera) sono in molti a guardarsi indietro, a piluccare origini e tradizioni, a indagare mitologie complesse per poi riaffacciarsi sul presente dopo il bagno purificante. La Finlandia sceglie l’ironia per compiere questo rito terapeutico, con gli artisti Melors e Nissinen impegnati a frugare nel folklore e gli stereotipi della sua storia, l’Islanda si affida ai trolls, l’Angola all’antica musica popolare e al cinema secondo il poliedrico Antonio Ole, la Nuova Zelanda a uno stupendo diorama che ripercorre in simultanea – e con grande umorismo – le tappe della sua colonizzazione dal Settecento in poi.

La Mongolia, invece, è incerta. Passa dal suo dna di sciamanesimo e pastorizia a un futuro di conflitti per lo sfruttamento delle risorse (minerarie), mentre la Cina non nutre dubbi: la civiltà rinasce da millenarie leggende fatte rivivere dai maestri del teatro delle ombre e dalla loro sapienza che sa di magia.

Il crinale del tempo come abisso identitario, le nuove forme di cittadinanza possibili – la Spagna con Jordi Colomer rivendica il nomadismo e l’architettura mobile per una convivenza urbana non conflittuale -, l’emergenza delle migrazioni umane e la scomparsa del corpo annientato dal potere sono alcuni dei temi che circolano tra i padiglioni nazionali.

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Il potentissimo Faust della tedesca Anne Imhof (che rappresenta la Germania) è uno specchio della brutalità contemporanea. Lo spazio mutato costringe il visitatore a un cammino disturbato. Pavimento e soffitto sono in vetro, dimora del controllo assoluto, struttura panottica che prevede anche cani doberman – con scorno degli animalisti e loro proteste -, oggetti sadomaso per l’addestramento, la tortura e pratiche erotiche estreme. Il nazismo è sempre alle porte, basta richiamarlo in campo.

Così come la tentazione populista per dirigere le masse e il teatro del totalitarismo apparecchiato per la Russia da Grisha Bruskin (artista di cui Voland ha appena pubblicao il libro
Imperfetto passato). E se l’Italia si affida alla imitatio Christi nel laboratorio alchemico e futuribile di Roberto Cuoghi che allude a trasformazioni catastrofiche, l’americano Mark Bradford (per il padiglione degli Stati Uniti) cerca un riscatto dal suo nuovo presidente guerrafondaio e razzista con le buone azioni: insieme al partner locale Rio Terà dei Pensieri ha fondato un’associazione per sostenere i detenuti, aprendo un negozio dove vendere i loro prodotti artigianali.

Ma è il Sudafrica a porre la domanda più profonda con Love Story di Candice Breitz: cosa ascoltiamo veramente quando le persone raccontano brani di sé? Dove comincia la nostra indifferenza? Bambini soldati, rifugiate siriane, attiviste transgender, dissidenti politici – alcuni «narrati» da Julianne Moore e Alec Baldwin – si presentano fuori dall’anonimato in cui li obbligano i media. E ancora il sudafricano Mohau Modisakeng con lo struggente Passage riesce a filmare la diaspora africana (ma anche la scomparsa del proprio sé) su una barca alla deriva, «abitata» da un solo corpo, un tempo schiavo, oggi migrante.