Ci sono libri che nascono come esperimenti e poi prendono piede, acquistano profondità nella ricerca e nella lavorazione, verbale e in questo caso grafica, fino ad esplodere, raccogliere importanti riconoscimenti, ed essere tradotti in 10 lingue. Sono libri che collezionano lettori e brindano innumerevoli occasioni per incontri e ritrovamenti, che indagano, spiegano e sensibilizzano, mentre offrono ai loro autori la possibilità di esprimere tutto il loro talento. Che risulta immutato oggi, a 10 anni dalla prima uscita di In Italia sono tutti maschi, il romanzo a fumetti di Sara Colaone e Luca de Santis, rieditato da Oblomov edizioni in una versione ampliata. Abbiamo parlato con gli autori del libro-che sarà presentato oggi alle 17 al Cassero LGBT Center di Bologna e mercoledì 10 alle 19, alla libreria Open di Milano-e di questa importante ricorrenza.

Sara, Luca, come vi siete imbattuti 10 anni fa nella storia degli omosessuali al confino, sopita per molti anni dalla narrazione ufficiale?

Luca de Santis: Anni fa ritrovai un vecchio numero della rivista Babilonia, storica testata del movimento omosessuale italiano, una rara intervista fatta da Giovanni Dall’Orto a un ex confinato omosessuale alle isole Tremiti. Fra le righe della storia raccontata da quell’uomo ormai anziano in modo a volte duro e sprezzante, a volte con una strana dolcezza, si leggeva la pena di chi non ha mai ricevuto un riscatto da tanto dolore.
Questa strana miscela di sentimenti ci colpì con forza. La vicenda del confino degli omosessuali durante il Ventennio all’epoca era sconosciuta ai più. Se ne erano occupati solo alcuni storici particolarmente attenti e alcuni studiosi legati al movimento omosessuale.

Sara Colaone: La voce del confinato, così reticente nel raccontare l’ingiustizia subita, generava in noi una necessità opposta, una sorta di urgenza nel ri-raccontare una storia dimenticata. Questa urgenza è stata la scintilla che ha mosso l’intero romanzo e che ha determinato molti dettagli della sua forma narrativa e grafica.

“In Italia sono tutti maschi” diceva Duce per convincersi dell’inutilità di una legge contro gli omosessuali, che la Germania nazista inviava ai campi di sterminio. Vi siete mai chiesti il perché di questa diversa misura politica? La solita ipocrisia italica, o è piuttosto che l’intimidazione e silenzio sono manovre più astute della persecuzione?

LdS: Per molteplici ragioni. Sicuramente con la negazione si toglieva corpo e presenza a una realtà che c’era, spaventava e si voleva appunto cancellare: inserire una legge contro l’omosessualità di fatto ne avrebbe legittimato l’esistenza. Ma questa reticenza, questo non detto ha fatto parte del nostro tessuto politico per molti anni e ne abbiamo pagato a lungo le conseguenze, perché prima di combattere la discriminazione le associazioni LGBT hanno dovuto prima urlare “ci siamo anche noi”, “esistiamo anche noi”.

SC: Non dimentichiamo che durante il fascismo, la famiglia venne messa la centro di una strategia propagandistica imponente.

Ninella e gli altri sono personaggi di fantasia cuciti su testimonianze reali. Quali documentazioni o archivi avete consultato? Avete fatto interviste o vi siete ispirati al lavoro di Giovanni dall’Orto incluso in appendice in questa nuova edizione?

Lds: Ricostruendo la storia di questi confinati ho incontrato non poche difficoltà: una bibliografia praticamente inesistente, fatta solo di articoli isolati e prefazioni, e testimoni diretti ormai scomparsi o per niente inclini a rivangare quei dolorosi ricordi. Tali difficoltà descrivono una storia che non si è conclusa con il ritorno a casa dopo il confino, che non ha trovato pace né riscatto, perciò era importante per noi farle diventare parte del nostro racconto. Il lavoro di ricerca storica si è svolto tra i documenti conservati all’ANPPIA di Roma, documenti video e audio recuperati negli anni ‘80 e ‘90 da storici come Dall’Orto. In più io e Sara abbiamo passato alcuni giorni sull’isola di San Domino, per concludere con i sopralluoghi il nostro personale viaggio in una memoria che cercavamo di recuperare.

SC: Ricostruire quei volti a noi sconosciuti (nelle schede di polizia le foto erano semi-cancellate), quei gesti e posture d’altri tempi è stata una sfida affascinante: si doveva combattere il pregiudizio a partire dal disegno e dal segno grafico.

La storia del confino di Ninella nell’isola di S. Domino è raccontata dalla contemporaneità, dove Rocco e Nico, due giovani documentaristi ai quali Antonio racconterà l’esperienza del confino. È un espediente che mette in scena la difficoltà della ricerca, quando la materia della stessa è intrisa di emozioni, passioni e ricordi rimossi. Come autori, riconoscete la difficoltà del lavoro che svolgono Rocco e Nico?

LdS: Il lavoro dello storico è davvero difficile e insidioso: ci vuole un distacco emotivo per riuscire a interpretare i documenti e le prove. Ho imparato che c’è una grande differenza tra una testimonianza raccolta poco dopo un avvenimento come quello dell’esilio e una testimonianza raccolto dopo tanti anni. Ho scoperto che il tempo modifica e spesso mitiga, addolcisce, e in questo caso i ricordi legati al confino diventavano ricordi legati alla giovinezza. Ho deciso quindi di attingere solo alle prove certe e documentate di quegli anni, alle lettere e ai documenti cartacei delle Prefetture.

La complessità emotiva dei personaggi e dei loro rapporti è molto realistica e mette a nudo tutta la contraddittorietà dell’essere umano. Mi è sembrato uno degli aspetti centrali e più importanti del libro: la minaccia della livella sociale ed emotiva, lo slancio fascista di omologare, appiattire, far rientrare tutto l’umano in un’inesistente normalità. Che ne pensate?

LdS: Quando cerchi di incastrare in una narrazione tanto materiale storico quello che accade è sorprendente anche per l’autore stesso: emergono una quotidianità e certe dinamiche sociali e sentimentali che mostrano l’insieme e ne restituiscono l’umanità. Mi sono spesso ritrovato in lacrime nel ricostruire le cene, le feste o la vita nei cameroni di quelle persone: c’era la vita, non le carte o i freddi documenti. Il confino non ha guardato in faccia a nessuno: l’esilio è una specie di “cancellazione sociale” era trasversale a classi sociali, religiose, territoriali.

SC: Allontanando gli omosessuali, si cancellava anche iconograficamente la possibilità che esistesse un modo diverso di vivere la sessualità fra le persone comuni. I “film dei telefoni bianchi” dell’epoca sono pieni di personaggi che trasudano ambiguità eppure su quella sfera lontana ed effimera non gravava alcuna minaccia. Quella è l’immagine degli omosessuali durante il ventennio, tollerata perché distante e non compromettente rispetto agli ingranaggi dell’enorme macchina di propaganda attorno al concetto di “famiglia”. Entrare nelle vite dei confinati invece, immaginare i loro sentimenti, osservando la loro capacità di reazione è stata l’opportunità per ridare corpo non solo alla verità delle relazioni, ma anche ritrovare un’immagine perduta.

L’appendice realizzata per i 10 anni dalla prima edizione, e che ripercorre le tappe della fortunata vita del vostro libro, è disegnata con uno stile completamente diverso dal resto.

SC: Io e Luca abbiamo sempre ragionato sull’eccezionalità della vita di questo libro: avevamo pensato di fare un piccolo racconto a fumetti e invece abbiamo scoperchiato il vaso di Pandora. Le riflessioni e i disegni prodotti da quest’esperienza di incontri col pubblico, confronti con storici, studenti e lettori internazionali sono confluiti in un diario, pubblicato in appendice. Qui, a differenza dei disegni della storia in bianco, nero e giallo – punto di riferimento iconografico per i lettori- abbiamo fatto esplodere il disegno, a raccontare l’universo di parole ed emozioni che ci hanno travolti dall’uscita di questo libro.

Dieci anni fa in Italia non esisteva ancora la legge sulle unioni civili. La comunità LGBT ha adesso qualche diritto in più, ma ultimamente le libertà individuali sembrano fortemente minacciate dalla visione dei nostri governanti. Cosa penserebbe Ninella di tutto questo, che ne pensate voi?

SC: Essere allontanati dai propri luoghi, dagli affetti e dalle attività, la fame propria e dei propri cari, il disonore che ne derivava all’epoca per tutte le famiglie -parliamo di piccoli paesi- gli arresti domiciliari che seguivano al rientro dal confino erano una pena decisamente dura per chi aveva semplicemente espresso un orientamento sessuale.

I racconti dei confinati si assomigliano e fanno impressione come se il tempo vi avesse steso sopra una patina di vernice. Feste, banchetti, carabinieri disponibili. Tutto vero, ma anche tutto falso. Bisogna scavare in quelle parole per trovare attraverso il contraddittorio anche l’autentico. L’oggetto del racconto è la resilienza, la loro capacità di essere umani, di ridere anche quando li è stato tolto tutto.

I confinati erano dei ragazzi e forse lo sono rimasti anche dopo, congelati nel loro sguardo sfuggente, desiderosi semplicemente di dimenticare, di porre fine a un’onta dai contorni indefiniti. Lo racconta bene Luca attraverso le parole di Mimì, il ragazzo morente che incontra Ninella nel dopoguerra: “E noi Ninè? Dove siamo noi, Ninella mia? Siamo ancora su quel molo, ad aspettare le barche… aspettiamo ancora che le barche ci portino a casa.”

Il vostro nuovo lavoro, candidato ai premi Micheluzzi-che avete vinto proprio 10  anni fa all’uscita di In Italia sono tutti maschi- ha protagoniste femminili alle prese con la propria autodeterminazione e condivide con IISTM la prospettiva storica e il senso di nostalgia. Di nuovo dobbiamo guardare alle lotte del passato per spiegare le istanze del presente? Quali differenze e quali punti di contatto trovate tra i due lavori?

LdS: Sono entrambi due libri fortemente politici perché l’attualità lo impone e lo sono in modo complementare: basti guardare la manifestazione contro il Congresso delle Famiglie di Verona, i gruppi femministi e i gruppi LGBT hanno marciato insieme perché il nemico è comune, ovvero qualcuno che vuole imporre dictat alla nostre esistenze.

SC: Sono anche libri che invertono la prospettiva dei modelli assoluti e obbligano a sentire insieme a personaggi incredibilmente comuni, ma dalle profonde radici.

Ci piace pensare ad Ariston come a un “In Italia sono tutte femmine”, perché anche nelle storie delle protagoniste, Renata, Roberta e la Contessa Bianca, c’è una ricerca fortissima di autodeterminazione, di un posto nel mondo in cui essere sé stessi e felici.