Non è la California. È uno stato che ancora nel 1993 fu costretto a decriminalizzare l’omosessualità dietro ingiunzione della Corte europea dei diritti dell’uomo: ma oggi la repubblica d’Irlanda si riscatta dalla nomea di avamposto dell’oscurantismo religioso diventando il primo Paese al mondo a tenere un referendum sull’estensione dei diritti del matrimonio fra persone dello stesso sesso.

Finita la campagna, è seguito il silenzio stampa di 24 ore prima del apertura delle urne, venerdì mattina. Lo spoglio comincerà la mattina successiva, sabato. Se il “sì” passasse, il paese si vedrebbe allineato agli altri 19 stati nei quali le coppie gay sposate godono dello stesso riconoscimento giuridico di quelle eterosessuali.

In Irlanda esiste già – introdotto dal precedente governo nel 2010, dopo un iter cominciato cinque anni prima -, il Civil Partnership Bill, riconoscimento giuridico delle unioni civili, che ha risolto problemi proprietari, pensionistici, fiscali. Ma che non riserva gli stessi diritti e tutele di cui godono le persone eterosessuali sposate. Il quesito referendario è se approvare o no la loro esatta equiparazione costituzionale.

Vi si fa ricorso proprio a causa della costituzione, che in Irlanda è scritta. Redatta nel 1937 del leader nazionalista De Valera con le gerarchie ecclesiastiche nazionali, non specifica il sesso dei contraenti il matrimonio. Questo quasi certamente significherebbe che un’ipotetica decisione governativa circa l’introduzione del matrimonio gay – procedura seguita da tutti gli altri paesi nei quali è in vigore – rischierebbe di essere impugnata in quanto incostituzionale dalla Corte Suprema, rendendo comunque pressoché inevitabile il ricorso referendario.

Il primo ministro della coalizione Fine Gael-Labour, Enda Kenny, ha gettato tutto il proprio peso dietro la campagna del “sì”. Kenny è una delle tante personalità da vari settori della società civile e dello spettacolo impegnati in una mobilitazione ritenuta capace di assicurare una vittoria stimata prudentemente attorno al 60%. Tuti i partiti politici sono a favore del sì; soltanto cinque parlamentari su 226 si sono dichiarati pubblicamente contro. Ieri Kenny ha dato il suggello finale all’endorsement governativo ricordando ai suoi connazionali che “Non c’è nulla da temere nel votare per l’amore e l’uguaglianza.”

Come un paese fino a ieri così profondamente tradizionalista – nel quale l’aborto è peraltro ancora illegale e che ha fatto ricorso a un altro referendum per ottenere il divorzio nel 1995 – abbia saputo portarsi a una simile storica vigilia è spiegabile con il crollo della fiducia nei confronti di una gerarchia ecclesiastica travolta da una marea montante di abusi di pedofilia e dall’imporsi di una generazione affluent sulla scia del recente “Celtic Tiger boom” di fine anni Novanta, principalmente legato alla bolla edilizia (puntualmente scoppiata) e dall’ingresso del paese nell’Unione europea.

Se – come si augura tutta la comunità LGBT internazionale e non solo – il sì passasse, sarebbe anche la fine della diaspora dei giovani e meno giovani gay irlandesi che hanno lasciato il paese per luoghi meno bigotti in cui poter vivere in pace la propria vita. Da qualche parte, Oscar Wilde osserva attento: avesse avuto lui questa fortuna, magari sarebbe potuto starsene a Dublino, anziché migrare a Londra.