Sulla nuova crisi irachena sta avvenendo qualcosa che ci riguarda. È infatti in discussione l’ideologia occidentale della cosiddetta “guerra umanitaria”.

Inaspettatamente, proprio mentre i protagonisti della vicenda che si consuma sulla pelle di popolazioni pacifiche, cristiane e yazide, dovrebbero essere compatti e uniti contro il dilagare delle milizie dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Siria e non solo) ecco che invece si dividono frontalmente, al loro interno e fra loro. Così a Baghdad il duro sciita Al Maliki non vuole abbandonare il ruolo di premier, che gli deriva dalla costituzione fin qui approvata da Washington, e viene detronizzato con una manovra di palazzo sostenuta da Washington, con la quale si affida a un altro sciita l’incarico di un governo “più unitario” e rappresentativo delle varie fazioni; e allora Al Maliki, che resta capo dell’esercito, muove i carri armati verso un fronteggiamento destinato a pesare quanto a instabilità e a risposta alle milizie jihadiste che avanzano e incontrano, oltre alla fuga disperata delle minoranze, la massa dei sunniti che li accoglie a braccia aperte. Dall’altra, sul versante americano, proprio quando il presidente statunitense Barack Obama decide e pratica l’intervento che più “umanitario” non si può, in soccorso ai fuggiaschi e in aiuti militari alle truppe kurde, ecco che l’ex segretario di stato Hillary Clinton, che gioca ormai apertamente le sue carte elettorali per la nuova presidenza americana, in una intervista a The Atlantic attacca Obama per incapacità e reticenza sul fronte siriano. Uno scompiglio più forte non era immaginabile, tanto da apparire come una prima vittoria dell’avanzata dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, il nuovo nemico che per Hillary Clinton “ha preso il posto dell’Unione sovietica” .

La divisione del fronte iracheno era nota, quella della leadership americana, a questo livello di esplicitazione, invece no. Entrambe però nascono dalla deriva e dalle ceneri delle guerre “umanitarie” americane, non solo in Iraq. Baghdad è spaccata perché le tre guerre statunitensi (del 1991 di Bush padre, di Bill Clinton nel ’98 e di Bush figlio contro Saddam falsamente accusato di “sostenere Al Qaeda) hanno rotto in tutta l’area l’equilibrio tra le due confessioni fondamentali dell’Islam, sunniti e sciiti, cancellando insieme non tanto e non solo Saddam Hussein e il suo regime ma lo Stato, l’esercito e tutte le istituzioni.

Quando Obama un anno fa dichiarò che quello iracheno era il “miglior ritiro della storia americana”, con un occhio al disastro in Vietnam, non aveva ben compreso che il sostegno al nuovo potere sciita – in funzione di contenimento dell’Iran degli ayatollah – rappresentato da Al Maliki e la riduzione dei sunniti, la componente maggioritaria, a forza subalterna sarebbe stata una bomba a tempo ritardato, così come il silenzio sull’avvio di fatto dell’indipendenza del Kurdistan iracheno con i suoi ricchi giacimenti di petrolio mentre i leader kurdi hanno giocato il doppio ruolo di garanti dell’impossibile status quo del paese.

Ma se queste sono le basi della divisione a Baghdad, le lacerazioni interne alla Casa bianca sembrano perfino più esplosive. Il voltafaccia di Hillary Clinton, che pure ha partecipato con Obama delle “magnifiche sorti e progressive” presentate dall’Amministrazione Usa dopo l’uccisione di Osama bin Laden, è davvero impresentabile. Accusa Obama di negligenza per non essere intervenuto in Siria nell’appoggio ai ribelli anti-Saddam, ma dimentica almeno due verità. La prima è – e lo riconosce nell’intervista – che i jihadisti poi sono stati aiutati da altri e “noi non potevamo fare nulla”, vale a dire che l’ex Segretario di Stato Usa è stata protagonista della coalizione degli “Amici della Siria”, con Gran Bretagna, Francia, Italia, ma con l’Egitto di Morsi, la Turchia e soprattutto con l’Arabia saudita e il Qatar, avviata per sostenere la ribellione armata dell’opposizione siriana; una opposizione che si è subito divisa sul campo in formazioni “laiche”, quelle dell’Esercito libero siriano e quelle jihadiste, prima indefinite, poi sempre più apertamente legate ad Al Qaeda, come il fronte An Nusra. Fazioni che hanno ingaggiato non solo una guerra feroce con le truppe del regime di Assad, ma un conflitto forse ancor più sanguinoso fra loro.

Vale la pena ricordare che armi, munizioni, addestramento statunitense e occidentale sono arrivati quando l’opposizione era ancora indefinita e che quei rifornimenti sono finiti per gran parte nelle mani dei jihadisti gli Usa se ne sono accorta all’ultimo momento ma era troppo tardi -, così come i consiglieri militari Usa hanno addestrato sul campo e in Turchia, spesso direttamente, tutti i combattenti. Del resto come avevano fatto in Libia per abbattere, insieme ai raid della Nato, il regime di Gheddafi. Hillary Clinton gioca sporco: dovrebbe ricordare infatti come questa contaminazione necessaria coi jihadisti per abbattere Gheddafi portò un anno dopo al dramma di Bengasi dell’11 settembre 2012, quando le formazioni jihadiste uccisero Chris Stevens, l’ambasciatore Usa che durante la guerra contro Gheddafi era l’uomo dell’intelligence americana di coordinamento degli insorti libici e inviato proprio del Segretario di Stato in Libia. Il disastro libico è alla base del disastro in Siria – si ricorderà che Obama in un primo tempo era riottoso a seguire lo scalmanato e “umanitario” Sarkozy. In Libia si è voluto fare come in Kosovo, e in Siria come in Libia. Ma non ha funzionato, non ha mai funzionato.

La Libia, ora tutta quanta nel caos, è diventata il santuario e il deposito di armi dell’islamismo radicale in tutta la regione del Levante e dell’Iraq. E a Bengasi è stato proclamato un mese fa l’”emirato islamico”. Hillary Clinton a causa dei fatti di Bengasi uscì di scena con il generale Petraeus, allora capo della Cia. Fu una disfatta sulla quale almeno lei dovrebbe riflettere, e invece straparla senza vergogna.

Perché l’agenda di Hillary Clinton (degna erede dell’”umanitario” Bill Clinton e dei tanti proseliti della Nato) sembra indicare la strada della “nuova” America post-Obama: sostenere la necessità dell’occupazione, anche manu militari, degli spazi lasciati vuoti dopo l’89 con nuove guerre umanitarie, perfino con la riedizione della guerra fredda ad est e l’allargamento della Nato ai confini della Russia. Obama si mostra incerto. Ma non può uscire dal militarismo umanitario. Che però mostra la sua falsa coscienza. Perché ogni raid aereo che ordina sui jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, è come se fosse un bombardamento dei risultati delle guerre americane, delle divisioni settarie prodotte dalla politica estera americana necessarie per comandare dividendo. L’intervento aereo sarà “mirato, non ci sarà quello di terra e non in Siria”: sono le tre regole del nuovo interventismo obamiano. Mentre vanno in onda i lamenti strazianti dei bambini cristiani e jihazidi quasi a farci dimenticare le centinaia di migliaia di vittime irachene della guerra americana. “Non in Siria” è quasi tragicomico: lì non può intervenire, aiuterebbe Assad, gli hezbollah e l’Iran e poi deve affrettarsi a ritirare i consiglieri militari americani della guerra coperta in corso in Siria: se bombardasse i jihadisti insorti in Siria rischierebbe di bombardare forze Usa. Vale a dire se stesso.