Ci eravamo sbagliati. Quando nel 2003 gli Stati uniti utilizzando la fake news più clamorosa degli ultimi decenni – l’inesistente presenza di armi di distruzione di massa in Iraq – hanno scatenato una guerra di conquista che ha portato inevitabilmente alla sconfitta dell’esercito iracheno e alla conquista dell’Iraq da parte degli Stati uniti, pensavamo che questa fosse soprattutto un’azione volta alla conquista di aree energetiche strategiche, quindi una guerra per il petrolio.

Se questo era un obiettivo è completamente fallito perché il primo partner commerciale dell’Iraq è la Cina che importa la metà della produzione petrolifera e ha importanti partecipazioni nelle società che estraggono l’oro nero a prezzi irrisori. Il costo per l’estrazione di un barile di petrolio in Iraq è infatti inferiore a 2 dollari.

Prevedevamo anche che la guerra avrebbe portato degli sconvolgimenti nella regione e che una guerriglia irachena si sarebbe strenuamente opposta alla presenza militare degli Stati uniti. La realtà si è dimostrata molto più complessa e articolata e molto più grave di quanto ci eravamo immaginati, la presenza americana è scoppiata come una bomba a grappolo coinvolgendo anche aree molto lontane e per decenni.

Innanzitutto gli sviluppi della situazione irachena sono apparsi incompatibili con l’occupazione americana, infatti l’Iraq è diventato uno stato vassallo dell’Iran, tanto che i giovani che manifestano per la democrazia in piazza Tahrir a Baghdad chiedono anche la partenza delle forze iraniane. L’occupazione degli Stati uniti ha favorito il peggior nemico di Washington, l’Iran. Ma quella che poteva essere la dimostrazione di un fallimento di Bush, oggi può persino tornare utile agli Usa se il vero obiettivo è quello di fare dell’Iraq il centro della destabilizzazione nell’area.

Un gioco pericoloso. Infatti la divisione del paese – dividi et impera – è sfuggita di mano se i sunniti esautorati da un potere sciita-iraniano si sono estremizzati fino ad indurre ex-baathisti a rimpolpare le forze dello Stato islamico. Combattuto dagli sciiti e dalla coalizione – finalmente si è saputo che anche i militari italiani sono impegnati in operazioni anti-terrorismo –- ma evidentemente non ancora sconfitto. Tanto che Trump ha ritirato truppe dalla Siria lasciando le forze democratiche siriane in pasto a Erdogan, mentre ha dislocato altri 5000 uomini in Iraq, rendendo sempre più esplicito il ruolo attribuito al paese dei due fiumi. Tanto che il presidente iracheno Barham Saleh aveva reagito a questa notizia dichiarando che non avrebbe permesso che l’Iraq diventasse un trampolino di lancio per l’aggressione di paesi vicini.

Gli Usa e Israele puntano soprattutto sul Kurdistan iracheno e le sue velleità indipendentiste, tanto che il lancio di missili iraniani sulla base americana di Erbil potrebbe essere una sorta di avvertimento ai curdi.

Ma l’effetto più grave della guerra americana è stato quello di provocare l’acuirsi dello scontro tra sunniti e sciiti (rispettivamente 33 e 63% della popolazione irachena), che sta sconvolgendo anche tutta la regione dove la rivalità per un’egemonia – che evidentemente non è solo religiosa ma fa della religione il proprio vessillo – alimenta guerre dalla Siria allo Yemen. In questo quadro le vittime principali sono stati quei movimenti che dalle rivolte arabe (Siria, Libia, Libano) fino a questi giorni (Iraq e Iran) sono stati soffocati da ingerenze straniere, soprattutto, dall’invio di armi, «consiglieri militari», finanziamenti destinati a destabilizzare la regione con la cacciata di Assad e le pressioni sull’Iran.

L’assassinio di Soleimani non farà altro che mettere a tacere le rivolte in Iran, in nome della difesa del paese, come quella irachena sarà schiacciata dallo scontro tra americani e iraniani. Sullo sfondo resta il Kurdistan che potrebbe essere tentato dall’«alleato» americano ad approfittarne per allontanarsi sempre più da Baghdad. Sembra di essere tornati al 1991, quando gli americani appoggiati da Gran Bretagna e Francia – che poi si è ritirata – crearono le no-fly zone come incentivo alla rivolta contro Saddam di kurdi e sciiti che poi furono abbandonati alla loro sorte e massacrati dal raìs.