Erano 15mila i kurdi che ieri hanno marciato a Diyarbakir, 5mila a Suruc e mille a Istanbul in solidarietà con Kobane. Stavolta Ankara ha mantenuto i toni bassi e autorizzato le manifestazioni, le stesse che all’inizio di ottobre provocarono oltre 30 morti, manifestanti uccisi dal fuoco di esercito e polizia.

A Diyarbakir sventolavano bandiere con il volto del leader del Pkk, Abdullah Ocalan, sfida al presidente Erdogan le cui politiche verso Kobane sono state dettate dall’intenzione di indebolire il più possibile la resistenza kurda. Lo stesso via libera al passaggio dei 150 peshmerga va in questa direzione: arginare l’influenza del Pkk e costringere Rojava ad avvicinarsi alle opposizioni anti-Assad.

Ieri il resto dei combattenti del Kurdistan iracheno ha raggiunto Kobane. Le Unità di Protezione Popolare (Ypg) hanno cominciato a organizzare le nuove forze: «La priorità sarà riprendere i quartieri occupati dall’Isis e poi liberare i villaggi nella campagna di Kobane», ha detto il portavoce delle Ypg, Shorsh Hassan. Questo l’obiettivo, a cui i peshmerga e i 150 miliziani delle Esercito Libero Siriano dovranno adeguarsi: le Ypg non intendono farsi dettare l’agenda da Ankara, hanno ripetuto nei giorni scorsi.

Si continua a combattere anche nel resto della Siria, dove a pagare il prezzo dell’avanzata jihadista sono sempre più spesso quelle opposizioni moderate che Usa e Turchia insistono a considerare il proprio bastione nel paese: ieri al-Nusra (gruppo islamista ex membro di Al Qaeda e oggi al fianco dell’Isis) ha strappato al Fronte Rivoluzionario Siriano l’area di Deir Sinbel e villaggi nella zona di Jamal al-Zawiya, nel nord della provincia di Idlib. Nei giorni scorsi erano stati i miliziani dello Stato Islamico ad allontanare i combattenti dell’Els dalle comunità intorno Idlib.

Un altro colpo alla strategia della coalizione che ha fatto del sostegno alle opposizioni moderate un caposaldo dell’intervento in Siria. Di duri colpi ormai se ne registrano sempre di più: dallo sfaldamento dell’esercito iracheno agli errori nei raid aerei fino alla mancata interruzione del flusso di nuovi miliziani che entrano in Siria per unirsi alle file dell’Isis. Un fallimento anche le pressioni su Baghdad che, nonostante le promesse del premier al-Abadi, non sembra ancora intenzionato a lavorare per porre fine ai settarismi interni.

Nelle pieghe di tali divisioni l’Isis sa infilarsi benissimo: dopo il ritrovamento dei cadaveri di 220 membri della tribù sunnita Albu Nimr tra Ramadi e Hit, ieri i jihadisti hanno giustiziato 30 persone nel villaggio di Ras al-Maa, nella provincia di Anbar. Anche stavolta membri della tribù Albu Nimr, accusata dall’Isis di apostasia perché impegnata a respingere l’avanzata di al-Baghdadi.

Dalla capitale non arriva sostegno, nonostante le ripetute richieste sunnite e l’appello di venerdì dell’Ayatollah al-Sistani. A pagarne le spese è il popolo iracheno: ieri due autobombe sono esplose nella capitale, provocando almeno 20 morti e 53 feriti.