Come al tempo della Rivoluzione del 1979, anche di questi tempi gli iraniani utilizzano le ricorrenze religiose per riunirsi e protestare contro il regime. Quaranta giorni dopo la morte di un congiunto, lo ricordano ritrovandosi con parenti e amici.
È quello che avrebbero voluto fare i genitori di Pouya Bakhtiari, il ragazzo ucciso con un colpo di pistola alla testa nella località di Karaj, a ovest di Teheran, nelle dimostrazioni di metà novembre: i genitori avrebbero voluto commemorarne la scomparsa e, al tempo stesso, esprimere dissenso. È per evitare che l’incontro sfociasse in protesta, ma anche per punirli per aver rilasciato interviste a emittenti con sede all’estero, che la magistratura ne ha ordinato il fermo e, ieri, ha caricato e arrestato diverse persone che si erano comunque radunate al cimitero.

RADUNI ANCHE A TEHERAN, in piazza Sadeghiyeh, e disordini a Shiraz e Tabriz. Di pari passo, ieri le autorità della Repubblica islamica hanno rallentato Internet e dispiegato i militari per evitare disordini. Ieri ricorreva infatti il quarantesimo giorno dall’inizio delle proteste scatenate il 15 novembre, quando il governo aveva reso noto, senza alcun preavviso, di aver portato da 250 a 60 i litri di carburante che ogni conducente può acquistare a un costo irrisorio, sussidiato. Dopodiché, il prezzo raddoppia. Di fronte alle proteste in decine di città iraniane, le autorità avevano reagito con violenza.

Per gli iraniani sono tempi duri, animati dalla sfiducia nei confronti sia delle autorità della Repubblica islamica sia della comunità internazionale che non ha rispettato l’accordo nucleare siglato a Vienna il 14 luglio 2015.

 

Ali Khamenei (Afp)

 

SE GLI IRANIANI HANNO PERSO fiducia nei confronti degli ayatollah è per l’incapacità di gestire la cosa pubblica e per la repressione messa in atto dai pasdaran ogni volta che la gente osa scendere in piazza. L’agenzia Reuters il 23 dicembre ha reso noto che i morti causati dalla repressione di regime dopo le proteste della seconda metà di novembre sarebbero stati addirittura 1500. Un numero riferito da fonti anonime, interne al ministero degli Interni di Teheran, attraverso un’analisi dei dati raccolti dalle forze di sicurezza, negli obitori, negli ospedali e dai medici legali. Un numero cinque volte superiore alle stime del Dipartimento di Stato e di Amnesty International, secondo cui le vittime sarebbero almeno 304. Il report di Reuters fa riferimento anche a fonti vicine al leader supremo Ali Khamenei, secondo cui a ordinare di fare tutto il possibile per fermare le proteste sarebbe stato l’Ayatollah in persona, spaventato dal fatto che i dimostranti avessero bruciato le sue fotografie e inneggiato al ritorno della monarchia. È possibile che la cifra di 1500 morti sia stata comunicata all’agenzia Reuters per scoraggiare ulteriori proteste: è la strategia della paura messa in atto da ayatollah e pasdaran.

LE AUTORITÀ DI TEHERAN ritengono che il dissenso sia fomentato da potenze straniere, ovvero Stati uniti, Israele e Arabia saudita, decisi più che mai a rovesciare il regime degli ayatollah e per questo disposti a spendere denari per infiltrare agenti in Iran e sobillare il popolo. Per questo motivo, a finire in carcere sono anche accademici del calibro dell’antropologa franco-iraniana Fariba Adelkhah, direttrice di ricerca a SciencesPo Parigi, detenuta nel carcere di Evin dallo scorso 5 giugno insieme al collega Roland Marchal. Come la ricercatrice australiana Kylie Moore-Gilbert, Fariba è accusata di spionaggio. Hanno entrambe iniziato lo sciopero della fame il 24 dicembre.

NEMMENO IL CALCIO riesce ad alleggerire la tensione: Andrea Stramaccioni, allenatore dell’Esteghlal in testa al campionato della Repubblica islamica, non tornerà a Teheran perché le sanzioni secondarie imposte dal Tesoro statunitense impediscono al club di accreditargli lo stipendio in Italia. Anche qui, a muovere le decisioni è la strategia della paura. Messa in atto, in questo caso, da Washington.