La magistratura di Teheran ha liberato la ricercatrice australiana Kylie Moore-Gilbert, arrestata per spionaggio nel settembre 2018 e condannata a dieci anni. Secondo i media iraniani, sarebbe stata scambiata con tre cittadini della Repubblica islamica detenuti in Thailandia dal 2012 per possesso illegale di esplosivi: avrebbero potuto usarli contro diplomatici israeliani a Bangkok, come accaduto in India e Georgia.

La diplomazia internazionale non è altrettanto efficace nell’ottenere la liberazione di Ahmadreza Djalali: il boia dovrebbe eseguire la condanna a morte del ricercatore arrestato nel 2016 mentre si trovata in patria per una conferenza. Sotto tortura, avrebbe confessato di essere una spia al soldo di Israele e di aver indicato al Mossad due scienziati nucleari, poi uccisi nel 2010. Nell’ottobre 2017 è stato condannato. Martedì scorso è stato trasferito in cella di isolamento.

«Specializzato in Medicina dei disastri e assistenza umanitaria, Djalali dovrebbe essere in prima linea a combattere la pandemia, non sul patibolo», ha twittato Riccardo Noury di Amnesty. In Italia il caso è noto perché Djalali aveva lavorato all’Università del Piemonte Orientale, a Novara, dove non si erano però concretizzare opportunità. Si era trasferito in Svezia, che nel 2018 gli ha concesso la cittadinanza.

Ieri il ministro degli Esteri svedese Ann Linde ha chiesto al suo omologo Javad Zarif di intercedere, ma il portavoce del ministero ha risposto: «Sfortunatamente, le informazioni a disposizione delle autorità svedesi sul caso di Djalali sono incomplete e false». In ogni caso, ha aggiunto, «la magistratura è indipendente dall’esecutivo».

La condanna a morte di Djalali s’inserisce nella lotta di potere tra i falchi, che controllano la magistratura, e i moderati del presidente Rohani, screditati dalla massima pressione esercitata da Trump. Il governo iraniano non ha mantenuto le promesse elettorali, le sanzioni hanno fatto crollare le esportazioni europee verso l’Iran (dai 10,6 miliardi del 2017 ai 4,4 del 2019) e le importazioni europee dall’Iran (scese da 10,1 miliardi a 700 milioni a causa dell’embargo petrolifero del 2018).

Dando prova di resilienza, l’Iran ha reagito potenziando l’industria non petrolifera, soprattutto nel settore privato. La forte svalutazione del rial (ha perso oltre l’80% durante il quadriennio di Trump) ha azzerato il potere d’acquisto delle famiglie ma ha dato impulso all’export, rendendo i prodotti iraniani competitivi nei mercati internazionali.

Ora, il cappio attorno al collo di Djalali mette in difficoltà Rohani e Zarif, ma anche la diplomazia dell’Ue e in particolare l’Italia, in questi giorni in prima linea per ripartire con il business con Teheran all’indomani della vittoria di Biden.

Il 1° dicembre inizierà una lunga fase di networking tra imprese europee e iraniane su una piattaforma digitale nell’ambito del Business Forum che si svolgerà online dal 14 al 16 dicembre su iniziativa dell’International Trade Center (agenzia Onu) e dell’Iran Trade Promotion Organization, in seno a un progetto finanziato dall’Unione Europea (Nes) con il sostegno dei think tank The European House-Ambrosetti e Bourse& Bazar Foundation di Londra.

Un’iniziativa di grande rilevanza anche politica: è possibile che i lavori siano aperti dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri Josep Borrell e dal ministro degli Esteri iraniano Zarif. È plausibile che i falchi di Teheran abbiano pianificato l’impiccagione proprio per mettere in difficoltà Zarif sul palcoscenico europeo.