C’è un’aria bella a Santarcangelo. Non è solo il caldo che d’improvviso è calato e per qualche giorno ha lasciato il posto a una brezza di mare. Chi frequenta la cittadina romagnola da più di trent’anni l’ha vista un poco per volta cambiare, ma ci sono momenti in cui il cambiamento si manifesta in maniera più repentina. Così l’improvviso apparire di nuovi ristoranti e nuove ristrutturazioni, però coniugato a un’ammirevole cura pubblica e privata, rende manifesta una vocazione turistica o l’acquisita consapevolezza di questa, che forse anche il suo festival del «teatro in piazza» ha contribuito a salvare da un indiscriminato consumo.

È stata questa l’ultima edizione del festival diretta da Silvia Bottiroli che ha anticipato di un anno la fine del mandato. Ed è stata anche l’occasione per annunciare, naturalmente all’ultimo giorno, il nome di chi prenderà il suo posto per il prossimo triennio. Un po’ a sorpresa la scelta del cda del festival presieduto dal sindaco Alice Parma è caduta sulla 36enne bielorussa Eva Neklyaeva, da tempo residente a Helsinki dove ha diretto il festival Baltic circle. Com’era da presumere «giovane» e «donna», i due requisiti che da mesi si dicevano essere privilegiati se non proprio obbligati, ma forse pensando anche ad altre candidature. Ha già dichiarato di volersi trasferire a Santarcangelo e quali saranno i suoi programmi cominceremo a scoprirlo in autunno. Intanto riceve in eredità una manifestazione cui Bottiroli ha impresso un’impronta precisa, che privilegiarmatività extra teatrale, legata agli spazi pubblici piuttosto che ai palcoscenici, minoritaria per vocazione e però aperta al panorama internazionale.

Non è un caso che, su questa linea, molti dei nomi a programma rappresentano dei ritorni. Markus Öhrn rinnova il rito segreto della sua Azdora, termine della lingua romagnola per indicare la donna che regge la casa. Marten Spangberg inscena un’altra notte senza fine in cui i corpi dei nove danzatori e del pubblico si mescolano. L’uomo che cammina di Leonardo Delogu è esattamente quello che promette il titolo, una camminata di quattro ore attraverso luoghi poco conosciuti di Rimini. Riccardo Fazi, l’artefice del gruppo Muta Imago, fa ascoltare in anteprima al ristorante Zaghini la versione compressa del suo Antologia di S. che Radiotre ha già presentato nella forma estesa in 5 puntate: in 45 minuti sono riassunte le molte ore e voci registrate qui l’anno scorso, dove cogliere attimi di vita privata diventa presto più importante dell’iniziale pretesto della performance, la ricerca della ragazzina con cui più di vent’anni fa l’artista aveva scambiato il primo bacio, di cui non ricorda il nome ma possiede ancora un’audiocassetta con le canzoni di quell’anno. E si potrebbe andare avanti.

Va in questa direzione anche la scelta di rendere più disteso il calendario giornaliero degli eventi, dando spazio anche alle riproposte. Come il lavoro fragile e ambiguo di Cosmesi, Di natura violenta, visto l’anno scorso a Dro, che proietta le parole di Henry David Thoreau tratte da Walden su un velatino frontale, lasciando alle spalle un luogo incerto dove la performer, Eva Geatti, sviluppa le azioni rarefatte di un uomo incappucciato in cui si materializzerà il cosiddetto Unabomber, il matematico statunitense che negli ultimi decenni del secolo scorso si era esiliato in una capanna fra i boschi dove confezionava pacchi bomba per le sue vittime.

O l’ossessivo BoleroEffect creato da Cristina Rizzo due anni fa, un altro ritorno dunque. 50 minuti di musiche da ballo che separano un deejay e due danzatrici dal naturale contesto, per dissezionare i loro gesti in una sorta di sala anatomica dove diventa esplosivo il contrasto fra il gesto naturale della più giovane e quello costruito della coreografa che le sta accanto.

Su un piano più propriamente teatrale la proposta dotata di maggiore peso specifico è però il nuovo lavoro di Amir Reza Koohestani, che in lingua inglese suona Hearing. Nel linguaggio giudiziario è l’udienza, l’interrogatorio, ma più liberamente si potrebbe intendere anche l’occasione per far sentire la propria voce. È quello che fanno le due ragazze che vengono a rendere la propria testimonianza sull’increscioso incidente avvenuto nel dormitorio femminile dell’università. La prima, con finta reticenza, afferma di aver sentito la voce di un uomo nella camera dell’altra, che invece l’accusa di essersi inventata tutto.

A interrogarle è una terza ragazza che non appare, se ne sta fuori campo a prendere vantaggio da questa posizione. Inevitabile lì per lì pensare a Rashomon e a una verità inafferrabile. E la staticità della situazione scenica può lasciare dubbiosi, al di là dello sguardo sul mondo giovanile del suo paese che il regista iraniano continua a lanciare dai tempi del prezioso Dance on Glaces, più complesso di quel che si vorrebbe nascondere sotto un hijab. Ma ci si accorge presto che c’è più Kiarostami che Kurosawa, se si vuol restare al parallelo cinematografico. La ragazza accusata scappa via, l’altra l’insegue con una telecamerina fissata al capo che riproietta l’inoltrarsi meandri dell’edificio. Immagini frammentate. Interferenze.

Quando ritorna sembra ricominciare da capo con le medesime frasi ma si vede subito che l’interprete è cambiata, ora è più anziana. È avvenuto uno slittamento temporale, e a maggior ragione emotivo. L’altra a cui continua a rivolgersi era stata espulsa dalla scuola, è fuggita in Svezia dove le è stato negato l’asilo. Si è uccisa. Al di là del pretesto narrativo, giacché di fantasmi è da sempre piena la scena, il vortice in cui si precipita è creato dalla destrutturazione violenta del linguaggio. E l’effetto è perturbante.