Il vero vincitore di queste presidenziali è il leader supremo Khamenei che ribadisce così la legittimità della Repubblica islamica. Le lunghe code ai seggi (in Iran e all’estero) aperti fino a tarda ora e l’affluenza al 70% sono la prova che la Repubblica islamica sa sopravvivere alle sue numerose crisi esistenziali.

Gli iraniani partecipano in modo attento alle vicissitudini politiche del loro paese, anche se poi gli organi eletti (presidente e parlamento) non fanno la politica estera e nucleare, né decidono la guerra e la pace. Prerogative del leader supremo.

Il pragmatico Hassan Rohani e il conservatore Ebrahim Raisi hanno giocato la loro partita sul terreno dell’economia: il presidente in carica Rohani ha chiesto agli elettori di continuare il lavoro iniziato con la firma dell’accordo nucleare nel luglio del 2015 perché il tempo non gli è bastato per rilanciare l’economia, bloccata da anni di sanzioni e isolamento internazionale. Lo scorso anno l’economia è cresciuta del 6,6%, principalmente grazie alla fine dell’embargo petrolifero dell’Unione europea e quindi all’aumento delle esportazioni di greggio passate da un milione di barili al giorno a due milioni e mezzo.

La disoccupazione resta però un problema (nella fascia tra i 15 e i 25 anni non ha lavoro un iraniano su tre) e gli investimenti stranieri tardano ad arrivare anche perché restano in vigore le sanzioni finanziarie americane.

Alle urne, gli elettori iraniani hanno dimostrato di non dare credito al consevatore Raisi, che aveva promesso di creare sei milioni di nuovi posti lavoro e di elargire sussidi a 24 milioni di iraniani con un costo equivalente a 3,5 miliardi di dollari. Per molti, era un déjà vu: quella era già stata la politica economica dell’ex presidente ultraconservatore Ahmadinejad (2005-2013) che, eliminati i sussidi al carburante e ai generi di prima necessità, aveva erogato somme in contante ai ceti più bassi e chiesto alle banche di concedere prestiti a tassi insignificanti (non remunerativi). L’inflazione era salita al 40% e lui, Ahmadinejad, aveva scaricato la colpa sulle sanzioni internazionali.

Ora, a mettere in difficoltà Raisi è stato il presidente in carica Rohani che – senza mezzi termini – gli ha chiesto dove pensa di prendere i denari da distribuire al suo elettorato: prelevarli presso la Banca Centrale equivale a tirarli fuori da una tasca per spostarli nell’altra, senza creare ricchezza e avendo la certezza di far schizzare l’inflazione alle stelle.

Gli iraniani sono ottanta milioni, il 70% vive in città, il 20% della popolazione in età lavorativa ha un diploma di scuola superiore. Il 60% degli iraniani ha meno di quarant’anni: non ha memoria della monarchia ma al tempo stesso ne ha fin sopra i capelli del clero al potere. A maggior ragione quando la sfida per la presidenza si riduce a un turbante bianco (Rohani) e a un turbante nero dei discendenti del profeta Maometto (Raisi).

Per sedurre i giovani, Raisi non ha esitato a farsi riprendere in compagnia del rapper Amir Tataloo, trentatré anni, che gli ha pure mostrato i tatuaggi. Un video discutibile, anche perché il rapper era stato già arrestato perché non in linea con i comandamenti della Repubblica islamica.

Da parte sua, il pragmatico Rohani ha avuto l’endorsement di tanti intellettuali, dell’ex presidente riformatore Khatami e del leader del movimento verde Karrubi (che resta agli arresti domiciliari come il suo collega Mussavi e la moglie Zahra Rahnavard).

Ad appoggiarlo è stato anche un esponente del clero sunnita, perché le minoranze sono importanti in un paese che è un mosaico di etnie, lingue e religioni, dove i sunniti sono circa il 12% dei credenti e possono accedere a numerose cariche (inclusa quella di deputato) ma non a quella di presidente.

A votare per Rohani sono state molte donne, anche se nessuna candidata ha passato le forche caudine del Consiglio dei Guardiani incaricato della selezione finale. L’avranno votato scegliendo il male minore, perché in questi quattro anni Rohani non ha favorito le organizzazioni femminili, molte delle quali sono state costrette a chiudere i battenti o a lavorare in sordina.

A rendere decisiva la vittoria di Rohani è stata comunque anche una riflessione sul torbido passato di Raisi: a fine anni ottanta aveva mandato a morte migliaia di oppositori della Repubblica islamica in un’operazione che era stata criticata duramente dal grande Ayatollah Montazeri, il quale per questa sua presa di posizione era stato destituito dalla carica di successore dell’Imam Khomeini e messo ai margini. Con un timbro, ricordano in tanti, Raisi li aveva mandati al patibolo.
Venerdì, votando numerosi, gli iraniani hanno voluto impedirgli di diventare il loro presidente.