Netta sconfitta del neoliberalismo in Argentina. Nelle primarie di domenica la coalizione peronista Frente de Todos ha superato di 15 punti (47% contro il 32%) la formazione del presidente Maurizio Macri, Juntos al Cambio.

Obbligatorie per legge, le votazioni avrebbero dovuto essere una consultazione interna ai partiti aperta al contributo di tutti i cittadini. L’estrema polarizzazione del paese, causata dalla drammatica crisi economica – inflazione galoppante e lunga recessione – risultato dei quattro anni di un governo che ha applicato misure neoliberiste, ha trasformato le primarie in una sorta di pre-votazione politica generale.

I cui risultati molto difficilmente potranno essere cambiati nella votazione costituzionale prevista per il 27 ottobre. Il ticket vincente dei Fernández – Cristina, ex presidentessa, e Alberto, ex premier, nessuna parentela – si è dimostrato capace di perseguire larghe alleanze basate su un programma non certo di sinistra ma con un ruolo mediatore dello Stato per rispettare le regole della democrazia e a garanzia di principi di solidarietà nazionale.

I due Fernández si sono di fatto divisi i ruoli. Alberto, candidato peronista alla presidenza, a rassicurare i mercati e quella parte del capitale disposto a investire in Argentina in cambio di forti garanzie. Cristina, nel ruolo di vice, a rassicurare i settori del giustizialismo legati allo scomparso marito Néstor Kirchner e in generale le folle emarginate. Per le quali era primario votare contro Macri e le sue politiche neoliberiste.

Le primarie ora concedono al ticket vincente un ruolo di «governo ombra» che – con grande inquietudine del presidente Macri – inizia a essere riconosciuto dai mercati e dal Fmi (che all’attuale governo ha fornito un credito di 60 miliardi di dollari), i cui dirigenti hanno già preso contatto con i vincitori.

Se confermata tra due mesi, la vittoria dei Fernández romperà l’egemonia della destra populista in America latina. E in Brasile l’oltranzista presidente Bolsonaro si vedrà privato di un alleato fondamentale.

Panorama completamente differente in Guatemala dove domenica ha avuto luogo il ballottaggio per le elezioni presidenziali. Alejandro Giammattei, leader della formazione di destra Vamos, sarà dal prossimo gennaio il nuovo presidente, con il 58,1% dei voti contro il 41,8% dell’ex premier Sandra Torres.

Il 63enne Giammattei è riuscito a ribaltare i risultati del primo turno triplicando i voti ottenuti in precedenza. Fatto che rispecchia il forte voto negativo che ha accumulato Torres. Ma anche, e soprattutto, il rifiuto di partecipare a elezioni screditate da parte di grandi settori contadini e indigeni che non si fidano – con solidi argomenti – della neutralità del Tribunale supremo elettorale e che avevano come scelta un candidato di centro-destra (Torres) e uno di destra.

Tra il male e il peggio, in un paese dove la forbice sociale cresce scandalosamente e dove impera la corruzione. Ad appoggiare il candidato di destra – contrario ad aborto e matrimonio omosessuale – si sono mobilitati i cristiani fondamentalisti evangelici attraverso le reti sociali. Come era accaduto in Brasile a favore di Bolsonaro. Però solo il 42% degli aventi diritto è andato a votare e Giammattei è stato eletto con meno di due milioni di voti sugli otto milioni di aventi diritto al voto.

Ex capo di un tristemente famoso carcere, Giammattei viene considerato il candidato della restaurazione oligarchica militare, erede delle politiche imposte dagli Usa (via Cia e United Fruits) nel golpe di stato del 1954 contro il governo progressista di Arbenz e dalle oligarchie locali, latifondisti legati alla monocultura, imprese idroelettriche, settori che vivono della corruzione e del saccheggio dei beni pubblici.

Nonostante il Guatemala registri una crescita economica costante, la Banca mondiale afferma che detiene uno dei maggiori tassi di diseguaglianza sociale dell’America latina con povertà, denutrizione, mortalità infantile concentrate specialmente nelle comunità indigene.

Una situazione destinata a peggiorare e a concludersi in una possibile crisi umanitaria a causa dell’accordo con gli Usa firmato lo scorso mese dall’attuale presidente Jimmy Morales, che accetta per il Guatemala la condizione di «paese terzo sicuro» per gli emigranti – dal Salvador e dall’Honduras soprattutto – diretti verso gli Stati uniti.

Per ottenere tale accordo, il presidente Trump ha utilizzato la sua arma favorita: la minaccia di tariffe doganali e commerciali che porterebbero alla rovina la debole economia guatemalteca.

Qualora – come appare probabile nonostante la retorica elettorale – Giammattei confermasse tale accordo, verrebbe isolata la politica del presidente Messicano Andrés Manuel Lopez Obrador che tenta di resistere ai diktat di Trump e di favorire una politica di investimenti in Centramerica come antidoto alla massiccia emigrazione causata da povertà e violenza.