Scomparsi, spariti nel nulla. Nel solo 2015, l’ufficio immigrazione del governo di Tokyo ha perso le tracce di quasi seimila apprendisti stranieri. Il numero di apprendisti scomparsi – 5803 – è infatti il più alto di sempre.

Più della metà sono di nazionalità cinese, ma nel conto dei desaparecidos fornito dalle autorità giapponesi, si contano quasi duemila vietnamiti e centinaia di birmani, indonesiani e nepalesi. «La situazione è grave», ha spiegato alla stampa un funzionario del governo giapponese. «Stiamo cercando di adottare misure per affrontarla». «Dai dati in nostro possesso», ha aggiunto, «possiamo dire che molti di loro lasciano il lavoro per cercare stipendi più alti».

CONDIZIONI DRAMMATICHE Ma secondo le organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti dei lavoratori stranieri in Giappone, sono soprattutto le drammatiche condizioni in cui gli apprendisti vengono impiegati a determinare le sparizioni. Il caso di Joey Tocnang, un operaio filippino «in apprendistato» in una fonderia della provincia di Gifu, Giappone centrale, morto nel 2014 a 27 anni, aveva riacceso i riflettori sulle loro condizioni.

A ottobre di quest’anno, il ministero del lavoro di Tokyo ha riconosciuto alla sua famiglia l’indennizzo per morti da karoshi (superlavoro). Entrato in Giappone nel 2011, poco prima della morte, causata da uno scompenso cardiaco, Tocnang era arrivato a lavorare fino 122 ore di straordinari al mese.
Da decenni il Giappone accoglie i cosiddetti apprendisti tecnici (jisshusei) nell’ambito della cooperazione internazionale con i paesi in via di sviluppo o dove sono in corso conflitti armati. Il programma è fondato sul principio del learn-by-doing: i partecipanti vengono assunti in un’azienda dove apprendono tecniche e know-how specialistici da importare poi nei paesi d’origine.

IMPEGNO GLOBALE Così facendo, sulla carta, Tokyo mostra alla comunità internazionale il suo impegno nella risoluzione di questioni globali, come il divario tra il Nord e il Sud del mondo, o l’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo. Sostiene l’internazionalizzazione di università e aziende. Nella pratica, però, il governo cerca di risolvere un problema interno, quello della domanda locale di manodopera, destinata a restringersi di quasi sei milioni di persone entro il 2030 a causa del rapido invecchiamento della popolazione, in settori economici specifici senza allarmare quelle fasce di popolazione preoccupate da una possibile invasione di lavoratori stranieri.

Solo l’anno scorso grazie a questo programma sono entrate in Giappone 192mila persone. In totale, oggi, oltre 200mila apprendisti sono impiegati nelle aziende del paese-arcipelago.

L’efficienza del programma è tale che il governo Abe è intenzionato ad espanderlo nei prossimi anni, in settori chiave per il Giappone come la sanità e l’assistenza agli anziani. Il programma è però accusato da più parti di violare i diritti umani dei partecipanti. Le costruzioni, la metallurgia e l’industria alimentare sono i settori maggiormente interessati da questo genere di accuse. «Il Giappone non ha un sistema di accoglienza di lavoratori non specializzati, così tirocinanti, studenti stranieri e chi ha un visto scaduto vengono usati come forza lavoro a basso costo.

La situazione è fuori controllo», ha dichiarato al Japan Times Shoichi Ibusuki, avvocato specialista in diritto del lavoro.

I NUOVI SCHIAVI Turni massacranti, stipendi ben al di sotto del minimo sindacale e condizioni igienico-sanitarie precarie: secondo una ricerca del Ministero del lavoro, della salute e del welfare giapponese, oltre il 70 per cento delle aziende che impiegano apprendisti stranieri commette violazioni alle leggi nazionali sul lavoro. A queste si aggiungono maltrattamenti e abusi di potere. Nel 2015, la condizione di semi-schiavitù in cui versano alcuni apprendisti è stata denunciata anche dal Dipartimento di Stato Usa.

«Alcuni lavoratori», si legge in un rapporto annuale sul traffico di esseri umani, «sono legati ai loro datori di lavoro da contratti che prevedono la confisca dei beni anche per diverse migliaia di dollari se provano a lasciare il loro impiego».

LA STAMPA DI DESTRA Al caso delle sparizioni ha dato particolare risalto la stampa di destra. Secondo il Sankei Shimbun, quotidiano di indirizzo conservatore, dietro all’aumento del numero di apprendisti scomparsi c’è quello del numero di attività economiche in mano a cittadini cinesi con regolare permesso di soggiorno permanente.

Sfruttando conoscenze personali o i social network popolari nella comunità cinese come WeChat, i cinesi residenti con attività a carico in Giappone assumerebbero in via informale loro concittadini, alcuni dei quali entrati nel paese-arcipelago con il programma di apprendistato.

Negli ultimi anni, la comunità cinese è riuscita a costruire una rete di mutuo soccorso parallela allo stato: una volta scaduto il visto, a cui è legata l’assicurazione sanitaria pubblica, gli interessati si procurano una tessera sanitaria contraffatta o prendono in prestito quella del proprio datore di lavoro.

LA RETE CINESE Alla base di questo fenomeno ci sarebbe la difficoltà dei cinesi di provincia a trovare lavoro in grandi città come Pechino e Shanghai e spostare qui il registro di famiglia (hukou) per avere accesso ai servizi di base. Nelle ultime settimane, la camera bassa del parlamento giapponese ha approvato alcuni provvedimenti tesi a disincentivare lo sfruttamento degli apprendisti stranieri e punire eventuali violazioni dei diritti dei lavoratori.

Tra gli emendamenti in discussione c’è anche l’immediato annullamento del visto per gli apprendisti che lasciano il proprio posto di lavoro.

Ma il timore di attivisti impegnati sul fronte della difesa dei diritti dei lavoratori stranieri è che il nuovo quadro legislativo offra ancora poche tutele ai diretti interessati.

Secondo il giornalista Yasuhiro Idei, autore di un libro dedicato ai lati oscuri del sistema degli apprendisti stranieri, il problema è a monte: esiste una rete di procuratori in contatto con imprenditori e burocrati, dietro ai quali si muovono in alcuni casi interessi politici. «Il governo dovrebbe interrompere i suoi programmi di internazionalizzazione».