Quella tedesca è, per antonomasia, una «democrazia dei partiti». Dopo la drammatica esperienza della Repubblica di Weimar, conclusasi nel 1933 con la presa del potere di Hitler, lo stato che sorse a Ovest dalle ceneri della seconda guerra mondiale fu edificato seguendo un imperativo categorico: evitare ogni rischio plebiscitario. E dunque: dovevano esserci corpi intermedi forti, strutturati democraticamente, regolati in modo preciso dalla legge – cioè i partiti – ad «amministrare» prudentemente la «volontà popolare». Quella stessa che, pochi anni prima, aveva consegnato il paese ai nazionalsocialisti.
È tenendo a mente questa vicenda storica che si spiega come mai la Repubblica federale tedesca non preveda quasi nessun istituto di democrazia diretta. In particolare, l’indizione di referendum popolari. Una possibilità contemplata in alcuni Länder ma esclusa per abrogare (o introdurre) le leggi più importanti, quelle federali, che valgono per l’intero paese. A parziale «risarcimento» dell’assenza di tale strumento, è consentito a ogni persona fare direttamente ricorso alla Corte costituzionale, nel caso in cui consideri i propri diritti fondamentali violati dai pubblici poteri. In sostanza, se una norma votata dal parlamento è ritenuta sbagliata, non si può ottenere che venga sottoposta a referendum, ma è permesso ad associazioni e singoli individui di denunciarla davanti ai «custodi della Legge fondamentale» riuniti a Karlsruhe.
Le rigorose e «fredde» procedure di un caso giudiziario, dove la decisione finale è in capo ad esperti con la toga, sono dunque preferite alla pericolosamente «emotiva» partecipazione senza filtri o mediazioni della cittadinanza ad una scelta politica: questo è il senso – portato agli estremi – della filosofia costituzionale tedesca in materia di democrazia diretta. Una filosofia che in molti, qui in Germania, cominciano a considerare superata, anche perché non più adatta a tempi nei quali i partiti di massa hanno ridotto la loro rappresentatività: negli anni ’70 la Spd aveva un milione di iscritti, oggi circa 450mila. Fra i sostenitori della democrazia diretta – va chiarito – nessuno vuole ridimensionare il ruolo della Corte di Karlsruhe, alla quale continuano a rivolgersi tutti gli oppositori delle più importanti scelte delle maggioranze: si chiede solo che ai cittadini sia concessa un’arma in più, e cioè il referendum.
Per questo motivo l’associazione Mehr Demokratie («Più democrazia») è impegnata in una sorta di campagna elettorale parallela a quella «partitica», allo scopo di porre questo tema al centro dell’attenzione. «Crediamo sia necessario che i tedeschi sappiano chiaramente quali partiti appoggiano la nostra proposta di introdurre il referendum e quali la avversano», ci spiega Barbara Hentschke, attivista 56enne che incontriamo mentre raccoglie firme e distribuisce volantini alla grande kermesse della Spd a Berlino dello scorso fine settimana. «Anche noi siamo qui con uno stand, perché non siamo affatto contro i partiti: non vogliamo distruggere la democrazia rappresentativa, ma semplicemente aggiungere elementi di quella diretta».
La Spd è favorevole ad introdurre nella Costituzione la possibilità del referendum popolare – senza specificare se solo abrogativo (come in Italia) o anche propositivo. Lo sono anche i Verdi e i social-comunisti della Linke: su questo tema infatti le sinistre sono unite. Per riformare la Legge fondamentale, però, occorre una maggioranza di due terzi in entrambi i rami del Parlamento, il Bundestag e il Bundesrat. Una soglia impossibile da raggiungere, essendo i democristiani della Cdu-Csu e i liberali della Fdp contrari. Un cambio di opinione nei partiti che formano il governo uscente appare, ad oggi, molto difficile per non dire impossibile.
I militanti di Mehr Demokratie, tuttavia, non demordono: «convinceremo anche i partiti refrattari». Per questo stanno seminando l’intero paese di manifesti di propaganda negativa su cui campeggia un’enorme scritta in campo nero: «Da 60 anni la Cdu impedisce i referendum a livello federale».
L’impegno di Mehr Demokratie e di altre organizzazioni simili forse non porterà a una vittoria legislativa ma certamente sta avendo – anche solo indirettamente – riscontri positivi. Ad esempio, nella vita interna dei partiti progressisti. La Spd sta consultando – in rete e nelle piazze – militanti ed elettori per scegliere i cinque progetti che un ipotetico governo socialdemocratico dovrebbe realizzare nei primi cento giorni. Ancora meglio hanno fatto i Verdi, i cui circa 60mila iscritti non solo hanno scelto le priorità del programma, ma anche il duo (un uomo e una donna) di candidati a cancelliere. Più tradizionale, da questo punto di vista, appare invece la Linke, forse troppo impegnata a sedare una lotta fra correnti che era arrivata al punto, l’anno scorso, di metterne a repentaglio l’esistenza. Ora, con la giovane e non-ortodossa Katja Kipping alla guida, insieme al lafontainiano moderato Bernd Riexinger, è lecito attendersi che anche qui arrivi qualche apertura a nuove forme di partecipazione.