Clandestino, extracomunitario, migrante, profugo, richiedente asilo, rifugiato, sfollato….. In questi anni abbiamo assistito al fiorire di tanti termini diversi, più o meno politically correct. Tanti termini per indicare un solo fenomeno: milioni di persone che dolorosamente decidono di lasciare il proprio paese per cercare dignità e speranza di vita altrove.

Oggi, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, voluta dall’Onu nel 2001 per celebrare il primo cinquantennio della Convenzione di Ginevra, dobbiamo porci la domanda: siamo sicuri che il riconoscimento dello status di rifugiato è oggi sufficiente per rispondere ai bisogni dei nuovi movimenti migratori? è possibile oggi fare netti distinguo tra chi fugge da persecuzioni e guerre, o da fame e povertà, o da catastrofi naturali e climatiche?

Non sono domande retoriche, perché la risposta non è scontata. Solo pochi mesi fa la Merkel ha affermato perentoriamente che solo i profughi da guerre possono essere accolti in Europa. Ma i profughi per ragioni economiche e ambientali sono la grande maggioranza.

A maggio in Germania, dove l’80% dei richiedenti asilo è di origine siriana, su 55.000 richieste, ne sono state accolte 20.000. In Italia invece, dove prevalgono gli arrivi dall’Africa subsahariana, nei primi sei mesi del 2016 su 40.000 richieste d’asilo lo status di rifugiato è stato riconosciuto solo al 4%, respinto il 60%, per la parte restante è stato riconosciuta la protezione sussidiaria e umanitaria. Nella divaricazione tra questi numeri sta l’impossibilità di affrontare il problema se si rimane vincolati alla figura del rifugiato.

Una cosa è certa. Oggi non ci troviamo di fronte ad un’emergenza momentanea, provocata da fatti circoscritti, ma al ritorno ciclico di un fenomeno storico: le popolazioni umane migrano da milioni di anni, e questo è stato un potente fattore di arricchimento ed evoluzione della specie umana (v. il bel libro di V. Calzolaio e T. Pievani, «Libertà di migrare», appena uscito per Einaudi). Se non si tengono insieme le cause che provocano la scelta di emigrare sarà impossibile affrontare i nuovi scenari. Di fronte a cui non solo non ha senso opporsi con muri e pattugliamenti, ma neanche ha senso rimanere legati alle conquiste del Novecento, perché si rischia che il riconoscimento dello status di rifugiato, che pure fu un passo fondamentale di civiltà, finisca oggi per divenire scudo e giustificazione di politiche retrive e cieche, incapaci di affrontare con la necessaria lungimiranza la situazione.

La Giornata mondiale del rifugiato deve essere l’occasione per riflettere sulla necessità e l’urgenza di mettere in campo processi nuovi, non di stampo emergenziale. Le nuove ondate migratorie non hanno una causa unica, ma derivano da un sistema profondamente intrecciato di iniquità, violenze, sfruttamento, catastrofi naturali, peggioramento delle condizioni climatiche, fame, povertà. E’ questo intreccio che ci ha portato a parlare di giustizia climatica e che ha bisogno di risposte nuove.

Quello che ci viene chiesto è di ripensare all’idea stessa di comunità locale, in cui tutti coloro che abitano un territorio, nativi e immigrati, si sentano responsabili e coinvolti nella sua cura, anche attraverso la possibilità di esercitare il diritto di voto alle amministrative. A livello nazionale va cancellato il reato di clandestinità. L’Europa deve rivedere le regole dell’accoglienza e restituire al Mediterraneo il ruolo di cerniera tra culture e mondi che cooperano. Non possiamo più accettare diritti distinti tra chi fugge dal suo paese, va riconosciuta la figura del profugo ambientale e la giustizia climatica è la concreta direzione di marcia per ridurre il peso nefasto delle fonti fossili sia sulle condizioni di vita di milioni di persone, sia sulla diffusione di guerre che continuano ad essere provocate dalla lotta per il controllo delle fonti fossili. C’è un filo nero che lega guerre, traffico d’armi, accaparramento delle fonti fossili, che è alla base dello stravolgimento della vita di milioni di persone. Oggi la possibilità di uscire dall’era del fossile c’è. Sarebbe un grande contributo alla pace e a creare contrappesi alla necessità di emigrare.

* Segreteria nazionale Legambiente