Dopo Anbar, Ninawa. Dopo Ninawa, Baiji e Salah-a-din. Oltre un terzo dell’Iraq è in mano ai jihadisti: l’avanzata delle milizie dell’Isil è inarrestabile. E si fa sempre più violenta, tanto da convincere gli Stati uniti – scomodo convitato di pietra nel conflitto tra Baghdad e qaedisti – a bypassare il Congresso e inviare subito droni e missili. Si muovono anche Kurdistan e Siria, direttamente coinvolti: il primo perché rifugio forzato per le oltre 500mila persone in fuga dalle province occupate; la seconda perché confine permeabile al passaggio di armi e miliziani e teatro delle offensive dell’Isil a Nord Est.

In due giorni l’Isil – ex gruppo dell’Al Qaeda di Al Zawahiri e oggi indipendente sotto la guida del temibile Al-Baghdadi – ha conquistato un terzo dell’Iraq, costringendo alla diserzione polizia ed esercito del nord ovest del Paese. A cadere per prima, lunedì, è stata Mosul, seconda città irachena per grandezza e primo centro commerciale. Ieri è toccato a Baiji, nella provincia di Salah-a-din, sede delle principali raffinerie di petrolio irachene: secondo il Ministero degli Interni, gli islamisti hanno distrutto alcuni edifici governativi e circondato la raffineria di Baiji, sono entrati nella sede del dicastero e preso armi e denaro. Avanzano a Kirkuk, dove controllano parte della città, si scontrano con l’esercito nelle vicine Hawijah e Rashad e mantengono forte la presenza a Fallujah e Ramadi, nella ribelle provincia di Anbar. Nel pomeriggio di ieri è infine giunta la notizia della presa di Tikrit, città natale di Saddam Hussein, poco a Nord della capitale: la città è stata occupata dall’Isil, ha fatto sapere la polizia, e centinaia di detenuti sono stati liberati. Caduto anche Tikrit, il simbolo dell’ex regime, l’Iraq è allo sbando.

Nelle mani dei qaedisti – che si avvicinano rapidamente al Kurdistan e pericolosamente a Baghdad – c’è quasi metà del Paese (buona parte delle regioni settentrionali e occidentali) e due dei suoi cardini economici e commerciali, evento senza precedenti a cui per ora il governo di Baghdad, privo di strategia e chiaramente debolissimo, risponde con lo stato di emergenza e la legge marziale. Maliki ha chiesto ai civili di prendere le armi contro i terroristi e promesso punizioni severe per i disertori.

A Mosul le milizie islamiste dettano legge, dopo la fuga dell’esercito e del governatore della provincia, al Nujaify. Oltre ad aver razziato le banche, preso l’aeroporto e una base militare dell’aviazione, dopo aver occupato i palazzi governativi e dato alle fiamme le stazioni di polizia, ieri hanno attaccato il consolato turco e catturato 25 membri dello staff, tra cui il console generale Ozturk Yilmaz. I prigionieri sarebbero stati condotti nel quartier generale dell’Isil di Mosul, mentre restano ostaggio delle stesse milizie anche 32 camionisti turchi, catturati lunedì.

L’offensiva degli islamisti e la violenza con cui è stata condotta – attentati suicidi, lancio di granate, incendi e scontri a fuoco – stanno provocando un esodo, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per la Migrazione: nelle ultime ore da Mosul e dalla provincia di Ninawa stanno fuggendo a piedi, in auto o su autobus fatiscenti mezzo milione di persone, un terzo della popolazione della città. Tutti diretti verso Nord, verso il Kurdistan iracheno: le immagini che arrivano dai checkpoint posti lungo il percorso raccontano il dramma delle famiglie, con sulle spalle poche valigie e negli occhi il terrore di finire intrappolati in un’altra insopportabile spirale di violenza.

Quella stessa violenza che non ha mai dato tregua all’Iraq del post-Saddam, dagli anni dell’occupazione militare Usa e le azioni della resistenza irachena ai settarismi interni che stanno insanguinando il Paese dopo il ritiro delle truppe a stelle e strisce. Una responsabilità enorme pesa sulla Casa Bianca, colpevole di aver lasciato l’Iraq nelle mani di un governo, quello Maliki, più impegnato ad arginare le legittime richieste della comunità sunnita che a combattere il tasso di corruzione (uno dei più elevati al mondo) e a ricostruire le basi economiche, politiche e sociali del Paese.

Da mesi Baghdad chiede agli Stati Uniti di intervenire, inviando nuovi aiuti militari. Dopo la presa di Mosul e Baiji, Obama sta ragionando su come mettere una pezza e, bypassando il Congresso (chiamato a dare il via libera nel caso di aiuti a Paesi accusati di aver avuto rapporti economici con l’Iran), dovrebbe a breve inviare in Iraq droni ScanEagle e missili Hellfire, mitragliatrici, granate, fucili M16 e migliaia di munizioni, parte di un accordo da 15 miliardi di dollari stipulato con Maliki.

Dopo una prima spedizione, potrebbero seguire anche elicotteri Apache, ma nessun soldato. Sostegno arriva anche da Kurdistan e Siria. I guerriglieri peshmerga si sono detti pronti a intervenire, ha annunciato l’Unione Patriottica del Kurdistan.

E lo stanno già facendo: secondo fonti sul posto, i curdi avrebbero già ripreso il controllo del villaggio di Rubaia, mentre le forze militari regolari attendono l’ordine per entrare in azione. Da Damasco il Ministero degli Esteri – dopo aver puntato il dito contro quei Paesi che negli ultimi due anni hanno sostenuto i miliziani anti-Assad, petromonarchie del Golfo in testa – ha parlato di «cooperazione immediata» con Baghdad.

La questione Isil non riguarda un solo Paese, ma un’intera regione. I miliziani si muovono con facilità da una parte all’altra del confine iracheno-siriano, portando avanti operazioni di successo e marginalizzando ogni altro gruppo di opposizione, moderato o islamista che sia. Obiettivo, creare un califfato sunnita, tra Iraq e Siria, dove la Shari’a sia la sola fonte del diritto.