Al grido di «pace, pane, terra» i contadini e i soldati russi determinarono l’uscita unilaterale della Russia dal macello della Prima guerra mondiale. Fu il primo atto della rivoluzione d’Ottobre.

Cento anni dopo, il flagello della guerra continua a incidere fortemente sulla sicurezza alimentare nei suoi due fattori condizionanti: produzione e accesso al cibo, ostacolati anche da frequenti circoli viziosi fra guerra ed eventi climatici estremi, perché le disgrazie non vengono mai sole, a giudicare dal rapporto Monitoring food security in countries with conflict situations, presentato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite a fine gennaio dalla Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura) e dal World Food Programme (Wfp) sull’insicurezza alimentare in 16 paesi: Afghanistan, Burundi, Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Guinea-Bissau, Haiti, Iraq, Libano per quanto riguarda i rifugiati siriani, Liberia, Mali, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Siria, Ucraina e Yemen, oltre all’area transfrontaliera del Bacino del Lago Ciad. Nazioni che hanno un denominatore comune: un conflitto in corso.

UNA DELLE POCHE NOTIZIE relativamente buone viene dalla Siria, grazie al ridimensionamento delle aree ancora in conflitto, anche se «la base socioeconomica e la produzione agricola continuano a essere difficili, oltretutto combinate con l’irregolarità delle piogge. Sono 5,5 milioni i siriani che hanno tuttora bisogno di assistenza alimentare e non solo». Alcuni sistemi di irrigazione sono stati ricostruiti o riparati. Ma le infrastrutture di trasformazione non sono riabilitate che in parte. E nel 2018 ci si è messa la stagione secca. Ad Hasakeh, dove si coltiva metà del grano del paese, il raccolto è fallito…I prezzi degli alimenti sono un po’ diminuiti ma sono comunque sette volte più alti rispetto a prima del conflitto. Molte persone sono ritornate ai luoghi d’origine, magari per trovarvi – è il caso di Raqqa – terre incoltivabili a causa delle mine sempre in agguato.

IN UN ALTRO PAESE MINATO (letteralmente) da un conflitto lunghissimo, l’Afghanistan, il 2018 è stato sia l’anno più letale in termini di vittime civili (operatori umanitari compresi) da quando nel 2009 la missione di assistenza Onu nel paese, Unama, ha iniziato a documentarle. Intanto la maggior parte delle famiglie rurali si trova nella peggiore emergenza dal 2011 a causa della siccità. Nell’aprile 2018 il governo ha dichiarato emergenza siccità in almeno 20 province. La capacità di popoli pur spartani di far fronte a questa difficoltà atmosferica (acuita dai cambiamenti climatici) è messa a dura prova da decenni di conflitti; perfino gli aiuti alimentari hanno difficoltà ad arrivare quando gli scontri infuriano. Molte famiglie hanno dovuto ripiegare su comportamenti di emergenza come: migrare in città, vendere il bestiame, consumare le sementi e ridurre le aree coltivate. Oltre il 90% dei contadini non ha semi per la stagione successiva. Gli allevatori lamentano pascoli aridi e morie di animali.

Fra il 2012 e il 2018 sono tornati a casa quasi due milioni di afghani, fra sfollati interni e rifugiati, ma l’acuirsi del conflitto ne ha fatti spostare oltre 270mila e altrettanto ha fatto la siccità.

Secondo una recente inchiesta, quasi il 40% della popolazione afgana lascerebbe il paese, se potesse. Ma, precisa il rapporto, «non hanno dove andare visto che l’ambiente in Europa e Iran è sempre più ostile.»

ANCHE PER GLI YEMENITI è molto difficile migrare, eppure in Yemen il 60% della popolazione si trova in situazione di emergenza alimentare. Il World Food Programme ormai deve raggiungere 12 milioni di yemeniti, fra i quali i bambini di meno di due anni, trattati con cibi a base di pasta di arachidi arricchita, e complessi di cereali per le donne incinte o che allattano.

Si intrecciano vari elementi: il conflitto e le condizioni ambientali avverse, lo scarso accesso ai servizi sanitari, aumento delle malattie a causa anche delle diete povere di nutrienti. Sul fronte della produzione, dipendente fra l’altro dalla pluviometria, mancano semi, fertilizzanti, strumenti per servizi veterinari, compreso il combustibile delle pompe. In Yemen, prima della guerra, anche nelle circostanze più favorevoli solo il 20-25% del cibo era di produzione locale. Ora poi i salari e le pensioni dei dipendenti pubblici non vengono pagati e questo, insieme all’aumento dei prezzi dei beni importati, decurta il potere d’acquisto.

NELLA REPUBBLICA democratica del Congo (Rdc), i conflitti in atto nel Nord e Sud Kivu, Tanganika, Kasai e Ituri (Kivu e Tanganika) hanno ridotto in particolare le colture di cassava, mais e riso, malgrado condizioni atmosferiche favorevoli. L’attività agricola è resa ardua da tanti fattori: insicurezza, penuria di input, assenza di organizzazioni di agricoltori, cattivo stato delle strade rurali e delle infrastrutture necessarie alla conservazione dei raccolti. In totale il 23% delle popolazioni rurali si trova in una situazione di emergenza. Il periodo di penuria post raccolto è iniziato prima, nel 2018, perché due stagioni consecutive di raccolti insufficienti hanno esaurito gli stock. Per fortuna almeno i prezzi della cassava sono rimasti stabili o si sono ridotti.

Un altro fardello pesante per le comunità ospitanti, già scarse di risorse naturali ed economiche, sono i massicci spostamenti di popolazione: 4,5 milioni di sfollati interni. E anche chi torna a casa, si trova senza semi né attrezzi, i pochi beni saccheggiati. Il paese deve anche ospitare ben 540.000 rifugiati e richiedenti asilo soprattutto dal Ruanda, Repubblica centrafricana, Sud Sudan. E 350.000 rifugiati congolesi in Angola, espulsi, sono tornati in patria. Molti nel frattempo avevano perso tutti i beni produttivi. Ciliegina sulla torta: il virus Ebola e il colera.