Leonora Carrington era una donna minuta, che assomigliava in bello a Karen Blixen. Di buona famiglia inglese, capelli neri, bel viso ovale, leggermente asimmetrico, un’immaginazione apparentemente sfrenata e una determinazione irlandese (come sua madre, che scriveva racconti di folclore). A quindici anni lasciò la famiglia e andò a studiare pittura a Firenze, scontentando suo padre. Tornata a Londra, si sottopose alla scuola del pittore Ozenfant che la obbligò per un anno a copiare una mela a carboncino. Su queste premesse cominciò la sua vita.

Cominciò, possiamo dire, nel ’36, a diciannove anni, alla prima esposizione surrealista di Londra. Qui trovò la casa per la sua immaginazione e la sua natura. Se la psicoanalisi aveva scagionato il desiderio sessuale, il surrealismo fece del desiderio il motore dell’arte, della poesia, dell’immaginazione. La ribellione trovava qui il suo campo di battaglia. Il territorio inconscio scoperto da Freud diventava qualcosa fra il giardino dell’Eden e la Terra Promessa: insomma una patria in esilio.

L’incontro con Max Ernst
Il surrealismo fu in tutti i sensi la casa di Leonora, perché produsse l’incontro con il grande Max Ernst. Ernst aveva quarantacinque anni, un viso aguzzo e arguto. Era un’eccellente sostituzione del padre. Andarono insieme in Francia, dove Leonora scrisse i suoi primi racconti, raccolti, insieme a quelli che avrebbe scritto in seguito, nel volume La debuttante, pubblicato in questi giorni da Adelphi (traduzione di Nancy Marotta, Mariagrazia Gini, pp. 179,euro  17,00) . Ma nel ’39 Max Ernst venne arrestato, e lei scappò in Spagna impazzita dal dolore. Venne internata in un manicomio, che raccontò in una straordinaria novella titolata «En-bas» («Giù in fondo», nella raccolta Adelphi, come il successivo Cornetto acustico»).

Terribile e magnifica, questa novella autobiografica contiene un piccolo mistero: è stata scritta in francese, lingua che Leonora conosceva appena, e pubblicata per la prima volta in inglese, a New York, dove la giovane donna si era rifugiata, seguendo e sposando un diplomatico francese.
Dopo di allora la sua vita si sarebbe svolta fra il Messico (dove passò una settantina d’anni) e New York (dove la incontrai).
Sia la narrativa che la pittura di Leonora Carrington si possono ascrivere al «fantastico», ispirate dalla libertà di orizzonti del surrealismo. Bisogna però intendersi su che cos’è il fantastico: per me è un salto. Ha la libertà e i limiti dell’energia del saltatore. Chi salta, in un primo tempo ha i piedi per terra, poi si dà una piccola spinta e spicca il suo salto durante il quale perde piede. Fatalmente dovrà ricadere, toccare di nuovo terra e ripartire. Può aiutarsi con una pertica, con una base di gomma, e saltare più in alto e più lontano. Ma sempre, all’inizio e alla fine del suo salto, c’è la terra. Vale a dire che la fantasia non è illimitata, non si salta dove e come si vuole, ma dove e come si è. Ed è molto interessante capire da quale terra parte il saltatore e su quale terra ritorna.

Leonora parte quasi sempre dalla sua vita, in particolare durante la sua giovinezza: le redini in cui la vogliono imbrigliare i genitori, la gelosia-nostalgia di Max, oppure quello che vede dalla finestra: questa è la terra che lascia. Quella che ritrova è la fine di un pensiero che serpeggia per tutto il racconto, e diviene così estremo che quasi non si può raccontare, ma solo intravvedere.
Per esempio, nell’«Ordine reale», la giovane protagonista viene a conoscenza di un complotto per uccidere la regina, ma poi, senza volere, si trova a doverla uccidere lei, spingendola nella gabbia del leone. Il racconto finisce così : «e più sentivo l’odore del leone più cantavo forte, per farmi coraggio».

Nell’«Attesa», la protagonista (che è, nei primi racconti, sempre giovane con lunghi capelli neri, scarmigliati – la stessa che vediamo nei suoi quadri di quel tempo) aspetta il suo amante, ferma sulla strada. Arriva una donna con due grandi cani, le chiede chi aspetta e poi la porta a casa sua. Qui le parla del passato: «Il passato», disse Elizabeth, slacciando il collare ai cani «l’adorabile, vivo passato. Bisognerebbe rotolarcisi, solo rotolarcisi dentro. Come si può essere una persona di qualità e sbarazzarsi dei propri fantasmi solo per buon senso?» Poi le chiede quanti anni ha il suo fidanzato Fernando. Quarantatré, dice la protagonista. Alla fine, affacciata alla camera da letto, vede le lenzuola sgualcite e «calde di amplessi amorosi», e capisce che Fernando l’ha lasciata.

Raccontandole così, queste storie non sembrano fantastiche. Sono i loro lineamenti e la continua labilità dei personaggi a renderle tali: la creatura che si dibatte nuda fra i rovi è una donna o un cavallo? E la sorella chiusa in soffitta è una prigioniera o un vampiro?
«Il sentimentalismo è una forma di stanchezza» disse il Cadavere Squisito, grigiognolo, dondolandosi sull’olmo nodoso, come avrebbe fatto un nido di vespe». E nel padre della «dama ovale» che, per punirla brucia il suo cavallo a dondolo preferito incurante dei suoi disperati nitriti, quanto c’è del severo, scontento padre di Leonora?

Una Alice senza ritorno
L’immaginazione di Leonora Carrington è comica e dolorosa insieme, come se ci facesse ridere delle sue grida di ragazza. Quelle grida che sentiremo acute nella novella «En-bas». Siccome oggi usa cercare somiglianze fra opere e scrittori diversi, possiamo dire che in Italia la scrittrice più vicina a lei è Annamaria Ortese, in Argentina Silvina Ocampo. Scrittrici in equilibrio sulla corda altissima dell’emozione, che guardano da così lontano il loro cuore spezzato da farlo sembrare un merletto o un ghirigoro. Poiché nei suoi racconti Leonora si affaccia sempre sulla propria immagine specchiata come un’Alice senza ritorno, nei racconti più tardi l’immagine diventa quella di una vecchietta «vestita di merletti color malva… con dei piedini simili a lame di coltello» che contempla per tutto il giorno il suo corpo attraverso gli occhi di pavone ricamati sulla sua biancheria («Abbattuta dallo sconforto»). E naturalmente compare il Messico, con il suo mistero crudele e profumato.

Nel bellissimo racconto «Una favola messicana» appare anche la nipotina della Grande Dea Madre (Uccello, Serpente, Dea), una figura presente nel suo romanzo Il Cornetto acustico, che faceva ormai parte della vita di Leonora.
Negli ultimi tempi la sua comicità fantastica cambia: diventa una fantasiosa presa in giro. Prende in giro la psicoanalisi, il Messico americanizzato, e anche della Dea si prende gioco («Mia madre è una vacca»). Ma nell’intreccio si riconosce sempre, in ogni racconto, il tenue filo della perdita e la corda su cui conta i suoi intrepidi salti.