Un nuovo venerdì della rabbia ha attraversato ieri l’Egitto, crepa nell’apparentemente monolitico controllo sociale e politico che la presidenza al-Sisi ha costruito in oltre sette anni di regime.

Da un paio di settimane, nei quartieri periferici e nei villaggi rurali, gli egiziani protestano. L’occasione era stata data dal primo anniversario dalla mobilitazione del 20 settembre 2019 quando, inattese, le piazze si riempirono contro la corruzione, sulla spinta della denuncia di un imprenditore colluso con il regime e poi fuggito all’estero, Mohamed Ali.

Polizia ed esercito hanno tentato di impedire le manifestazioni, arrestando preventivamente migliaia di attivisti e di giovani. È servito solo in parte: se Tahrir è rimasta vuota, tante altre piccole e invisibili piazze si sono svegliate. Con le loro vittime accertate: mercoledì scorso Awais al-Rawi è stato colpito alla testa da una pallottola davanti alla sua famiglia a Luxor, dopo aver insultato dei soldati che avevano picchiato il padre e arrestato il fratello. Ai funerali i militari hanno sparato sulla folla che lo commemorava.

La stessa violenza, fatta di proiettili veri e gas lacrimogeni, ha accompagnato le altre proteste, raccolte sotto il nome di sollevazione della galabiya, la tradizionale veste bianca araba. Lo scorso venerdì, altra «giornata della rabbia», era stato ucciso il 25enne Sami Wagdy Bashir nel villaggio di al-Blida a Giza.

Da settimane le forze di polizia sono in massima allerta a fronte di almeno 164 proteste spontanee in decine di villaggi in 14 dei 27 governatorati egiziani (le ha contate la Arab Foundation for Civil Society Support).

Almeno 400 gli arrestati dal 20 settembre, che si sommano agli oltre mille fermi preventivi dei giorni precedenti e ai 4mila ancora detenuti per la mobilitazione dello scorso anno. Tutti accusati di appartenenza a gruppo terroristico, diffusione di notizie false e protesta illegale.

Ma al di là dei numeri, della partecipazione e della diffusione geografica, le proteste popolari vanno considerate evento significativo. Perché dal 2013 sono rarissime (le prime proprio nel 2019) a causa delle conseguenze quasi certe, morti, ferimenti, detenzioni, e perché fanno tremare le fondamenta del regime di al-Sisi.

Lo ha ben spiegato il ricercatore di Human Rights Watch Amr Magdy a Middle East Eye: «Ogni egiziano sa che unirsi a una protesta anti-governativa significa non solo la prigione ma anche la morte. Lo spazio per l’impegno civile e per l’organizzazione indipendente si è ristretto moltissimo in Egitto, la società è stata privata di ogni canale di espressione pacifica e di mobilitazione. Sette anni di repressione sotto al-Sisi hanno privato la società dei suoi partiti politici e dell’attivismo indipendente, per questo ogni protesta che avviene in un simile ambiente di intimidazione è un atto di enorme coraggio».

Il presidente ha cementato il suo potere intorno a pochi ma fondamentali capisaldi. Accanto alla centralità politica ed economica dell’esercito, ne spicca un altro: evitare l’errore del suo predecessore Hosni Mubarak distruggendo ogni forma di organizzazione politica di opposizione per impedire un’altra piazza Tahrir.

Per garantirsi la sopravvivenza ha incarcerato oltre 60mila prigionieri politici – islamisti, liberali, comunisti, progressisti, giornalisti, blogger, avvocati, attivisti, sindacalisti – e ha messo fuori gioco le principali infrastrutture delle libertà di espressione: decine di siti web, agenzie di informazione e giornali chiusi, partiti messi al bando (i Fratelli musulmani), ong perseguite, produzione di una nuova legislazione che punisce scioperi e proteste e che allarga a dismisura il concetto di «terrorismo».

Ogni spazio di dibattito, critica e opposizione politica è stato chiuso per evitare che una rivoluzione come quella del 2011 potesse compiersi di nuovo: senza strutture politiche, non c’è rivolta.

È così? Un elemento al-Sisi sembra non aver messo in conto. La fame, la miseria. In Egitto non vengono violati solo i diritti di espressione e parola, ma anche quello a una vita degna. Le politiche di austerity e le riforme neoliberiste figlie dei prestiti dell’Fmi hanno impoverito la popolazione a livelli quasi senza precedenti.

Con il sistema di welfare di Nasser ormai vago ricordo, il paese è preda di un rapido e crescente allargamento della distanza sociale tra classi: straricchi e poverissimi, mega progetti infrastrutturali e quasi totale assenza di servizi basilari, inflazione feroce, taglio ai sussidi per acqua ed elettricità.

Ultimo esempio di questa politica di marginalizzazione delle classi povere (la stragrande maggioranza in Egitto, con il 60% della popolazione sotto la soglia di povertà o poco sopra) è la campagna di demolizioni lanciata dal regime il mese scorso. Una campagna vastissima che potrebbe colpire centinaia di migliaia di persone e già partita: l’esercito ha già distrutto centinaia di case costruite senza licenza, nei centri urbani e nelle campagne.

Nessuna alternativa è data agli sfrattati: intere famiglie vivono all’addiaccio, qualcuno ha trovato ospitalità dai parenti, centinaia di persone sono state aarrestate per aver lanciato pietre ai bulldozer.

Possono solo pagare: chi versa una multa, può restare nella sua casa. Un’operazione complessa a fronte di un generale e diffuso impoverimento che il Covid-19 ha solo aggravato, riducendo per molte famiglie a zero anche le rimesse dall’estero.

Eppure si tratta di abitazioni che in molti casi hanno più di quattro decenni di vita. Costruite senza permessi dai più poveri e rimaste lì (si parla, dice il governo, di 2,8 milioni di edifici), senza che le autorità intervenissero: lo Stato sapeva che erano la sola risposta all’assenza di edilizia popolare. Al-Sisi non costruisce case popolari, ma una nuova capitale (New Cairo), quartieri chic sulle macerie di quelli storici del Cairo, i centri residenziali di Maspero e Horus. I poveri non hanno nemmeno diritto a una casa.