È difficile immaginare come viva un autocrate le ore precedenti la sua incoronazione. Eppure sta per realizzarsi il piano (o roadmap) per guidare l’Egitto, cominciato con l’inattesa ascesa di Abdel Fattah Sisi a leader delle Forze armate nel luglio 2012. Si vota per la sesta volta in tre anni ma l’entusiasmo delle presidenziali del giugno 2012 è svanito. 400mila poliziotti e soldati sono stati dispiegati nel paese mentre le università, centro delle contestazioni, sono chiuse da giorni.

Non si rincorrono le decine di simboli originali dei partiti, nati in fretta, dopo le rivolte di piazza Tahrir nel 2011. La città è ora tappezzata del volto di Sisi, affiancato a una stella e una bandiera. Di fatto, è tornato il culto della personalità, archiviato dopo l’arresto di Mubarak. E così dilaga la mania per l’ex militare, che, messi a tacere i dubbi di alti generali sulla diretta partecipazione in politica, guida il paese già dal giorno del colpo di stato del 3 luglio 2013, quando il presidente eletto, Mohammed Morsi, è stato arrestato. Tuttavia, una maggioranza silenziosa, che non ha votato al referendum costituzionale (fermo al 36% di affluenza), prova un profondo malessere per la vittoria annunciata di Sisi. «Queste elezioni sono una farsa. Non meritano neppure di essere raccontate perché sono poco più di uno spettacolo mediatico», ci spiega Mustafa Sakr, che boicotterà i seggi.

Le pratiche di Sisi nulla hanno a che vedere con la democrazia: dal massacro di Rabaa al Adaweya che ha causato quasi mille morti agli arresti sommari di islamisti (oltre 41mila secondo fonti indipendenti); dalla legge anti-proteste, che ha messo alla sbarra i principali leader dei movimenti giovanili all’approvazione della Costituzione che permette processi militari contro i civili. Il colpo di grazia al pluralismo è venuto con la legge elettorale per le parlamentari, presentata la scorsa settimana. «Fermerà la formazione di partiti politici perché la metà del parlamento sarà scelta tra candidati indipendenti», ci ha detto Khaled Dawud del partito di opposizione Dostur.

E così, se le gigantografie dell’uomo forte occupano lo spazio pubblico, in alcuni quartieri sono apparsi inequivocabili schizzi di una pittura rosso sangue a sottolineare la vera natura del nuovo raìs. Grandi tendoni alle porte del palazzo del re Farouk a Abdin hanno raccolto testimonianze a favore dell’uomo, responsabile dei test della verginità su 17 contestatrici nel marzo 2011. In assenza di alcun dibattito televisivo e di un vero confronto su temi o programmi, le sparute immagini dello sfidante, il nasserista Hamdin Sabbahi, affiancato da un’aquila, e i minuscoli assembramenti dei suoi sostenitori sembravano sempre passibili di punizione. In un’intervista al manifesto dell’agosto 2013, Sabbahi promise, se eletto, di promuovere la «redistribuzione della ricchezza»; eppure la sua candidatura sembra solo legittimare l’ascesa del faraone.

Sisi è già pronto a guidare il Nord Africa: incassato l’appoggio del presidente russo Vladimir Putin, ha promesso che volerà in Arabia saudita come primo atto dopo la sua elezione e che si occuperà di Libia. Negli ultimi giorni di campagna elettorale ha pesato il golpe libico di Khalifa Haftar, Sisi ha chiaramente ammesso di voler evitare che il paese continui ad essere un covo di «estremisti e milizie», attribuendo la responsabilità del caos ai Fratelli musulmani libici. Il traffico di armi nella «terra di nessuno» tra Libia ed Egitto, preoccupa l’esercito egiziano, pronto ad annientare le milizie islamiste, dopo l’accordo tra il generale Haftar e la brigata 17 febbraio, vicina all’esercito regolare libico.

Eppure l’Egitto ha abituato il mondo a sorprese inaspettate. I crimini di Sisi potrebbero convincere giovani giudici a formulare incriminazioni contro l’ex generale. I primi segnali emergono dalle accuse mosse contro il premier ad interim, voluto da Sisi, Ibrahim Mahleb. Secondo un report, reso noto dal sito indipendente Mada Masr, che inchioda i Mubarak per corruzione e concussione, anche Mahleb, ex dirigente della Arab Contractors, avrebbe distratto milioni di fondi pubblici dalle casse dello stato.

Ma per il momento prosegue solo la repressione degli islamisti, dopo le oltre 700 condanne a morte disposte per gli scontri dell’estate scorsa, la Corte di Mansura ha condannato all’ergastolo 54 islamisti, tra cui giovani del movimento Studenti contro il golpe, per assalto alle forze di sicurezza. Infine, con gli appelli delle moschee a recarsi in massa alle urne, resta solo il dubbio di come si comporterà la base elettorale dei salafiti. Mentre i leader del movimento (che ottenne il 25% nel 2012) sostengono Sisi, molti simpatizzati, galvanizzati anche dall’invito al boicottaggio del noto sheykh Youssef Qaradawi, potrebbero non andare a votare.