Ci hanno fatto male le immagini di Lula Inácio da Silva asserragliato nella sede del sindacato metalmeccanico di San Paolo e circondato da una folla solidale. In quello stesso luogo era iniziata la sua carriera politica che ne ha fatto uno dei simboli di riscatto della nuova America latina. E proprio lì è tornato a difendersi dalle accuse di aver ricevuto tangenti e un lussuoso appartamento dall’azienda petrolifera pubblica brasiliana Petrobras.
La protesta si è conclusa con un orgoglioso Lula che uscendo da una porta secondaria e infilandosi in un vicoletto si è consegnato alla polizia dopo aver detto alla sua gente in un ultimo comizio: «Polizia federale e pubblico ministero hanno mentito. Non li perdono per aver trasmesso alla società l’idea che io sia un ladro. Non ho paura di loro e non abbasserò il capo».

Ora, salvo l’esito dei ricorsi al tribunale che lo ha condannato, l’ex presidente rischia di scontare la pena di dodici anni di carcere per «corruzione». Intanto non è candidabile nelle elezioni presidenziali del prossimo ottobre che lo vedevano nettamente favorito per una rielezione. Impeachment riuscito poi contro la presidente Dilma Rousseff, accusata di aver falsificato il bilancio statale, golpe senza carri armati contro Lula dopo un assedio iniziato nel 2015 (Luigi Ferrajoli e Luciana Castellina hanno già scritto sul questo giornale su discutibilità dei processi e dimensione dello scontro politico in atto). È incredibile che al posto dei due ex presidenti ci sia uno dei personaggi più chiacchierati del Brasile: Michel Temer, centrista del partito Pmdb, in carica fino al prossimo ottobre senza investitura popolare grazie a un voto parlamentare, accusato più volte di malaffare.

Può essere interessante aggiungere qualche riflessione sul contesto in cui tutto questo è potuto avvenire. Dopo gli anni delle dittature militari latinoamericane, ci eravamo abituati a un’immagine «normalizzata» del Brasile. Sesto o quinto paese al mondo per prodotto interno lordo, ottava o nona potenza mondiale, questo paese-gigante dell’America latina sembrava in grado di occupare un ruolo di primo piano nella politica mondiale.

Sono infatti indiscutibili i risultati economici raggiunti dalle due presidenze di Lula (2002-2008) e di Rousseff (2011-2016), entrambi dirigenti del Partito dei lavoratori (Pt) e entrambi militanti della lotta per il ritorno della democrazia dopo il golpe militare del 1964. I successi hanno però prodotto contraddizioni nello sviluppo accelerato del gigante brasiliano su cui si sono fiondate molte multinazionali. Casi di corruzione si sono annidati in molti settori del Pt che all’inizio del suo cammino nel 1980 era un esempio di pluralismo politico interno e di modello organizzativo innovativo (nel partito convivono tuttora opzioni diverse, da quelle socialdemocratiche a quelle più radicali).

Molteplici gli affaires a livello territoriale denunciati negli ultimi anni, alcuni ministri costretti a dimettersi a causa di procedimenti indiziari, perdita di prestigio dei gruppi dirigenti. La crescita economica è stata miele per le tentazioni di fare soldi in fretta e senza eccessivi controlli con i tradizionali metodi di tangenti su appalti e mazzette da parte di aziende pubbliche e private (c’è stato pure uno scandalo Telecom Brasile).

Agli episodi di corruzione si è poi aggiunto lo scontento per le promesse non mantenute dal governo al Movimento dei Sem terra e per l’aumento delle tariffe dei trasporti urbani e delle tasse scolastiche. La composizione sociale delle più recenti manifestazioni di protesta era un dato su cui riflettere: non masse di sottoproletari di periferia, bensì giovani studenti e in generale giovane classe media che non ce la faceva a tenere il passo della locomotiva economica brasiliana, per altro negli ultimi anni fermatasi con preoccupanti indici di debito pubblico e inflazione. Le statistiche parlano di un Brasile inedito grazie a Lula e Rousseff con una composizione sociale fatta di 50% di classi medie impegnate soprattutto nei servizi, 27% di poveri in senso lato, 20% di ricchi e 3% di inclassificabili. Importanti investimenti sono stati fatti pure in tecnologia, ricerca e innovazione. Ma proprio quei risultati positivi hanno provocato nuovi problemi incrinando quello che sembrava un modello vincente.

Mentre la destra liberista, molto potente in Brasile, faceva il suo mestiere usando la vulnerabilità del Pt, Lula e Rousseff hanno sottovalutato il virus che stava infettando il partito. Il potere, a volte, può diventare una malattia che rende ciechi.

Dopo gli anni dei successi politici e sociali, sono tornati i problemi di sempre del Brasile: debolezza dei partiti e della democrazia, nuova classe media non rappresentata, destra sempre in agguato che gioca sulle insoddisfazioni e sulle promesse facili, economia dipendente dall’esterno, facili occasioni di guadagno.

La destra ha colto l’occasione per prendersi le rivincite. La sinistra dovrà cercare di ricostruirsi intorno alla difesa di Lula e Rousseff. Lo stesso sta accadendo in Argentina e Cile, dopo le presidenze di Cristina Kirchner e Michelle Bachelet.