«Netanyahu è un bravo ragazzo». Con il tono di Marlon Brando nel Padrino, ieri Donald Trump è sceso in campo per dare una mano al suo «good boy» preferito in Medio oriente, fresco di un clamoroso e umiliante fallimento: non è riuscito, dopo un mese e mezzo di trattative, a mettere insieme il nuovo governo, nonostante i numeri rassicuranti che le elezioni del 9 aprile avevano regalato al suo partito, il Likud, e al resto della destra israeliana.

Un insuccesso tanto grave che il Likud ha dovuto salvarlo calciando all’ultimo minuto la palla in tribuna, ossia approvando con i partiti alleati una legge per lo scioglimento della Knesset e la convocazione di nuove elezioni per il prossimo 17 settembre, evitando l’affidamento dell’incarico a un altro esponente politico.

Trump si è detto rammaricato nel vedere Israele obbligato a tornare al voto: «È un peccato ciò che è successo in Israele», ha commentato notando che il voto del mese scorso «sembrava una vittoria totale per Netanyahu». E invece.

La mancata formazione della nuova coalizione di governo complica non poco le mosse dell’amministrazione Usa, proprio ora che si apprestava ad annunciare il suo Accordo del secolo, il piano di «pace» per il Medio oriente. Tra meno di un mese è previsto in Bahrain il forum economico con cui gli americani sperano di aprire la strada al riconoscimento di Israele da parte del mondo arabo, sganciato dalla realizzazione dei diritti dei palestinesi e dalla fine dell’occupazione militare israeliana in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est.

Non sorprende l’ironia di Saeb Erekat, segretario dell’Olp: «Gli Usa hanno presentato troppo presto il loro piano, l’Accordo del secolo sarà quello del secolo prossimo», ha commentato ricordando che, in ogni caso, i palestinesi respingono l’iniziativa americana e rifiutano la mediazione Usa.

Gli Usa hanno ottenuto l’appoggio e la promessa di partecipazione al forum economico di Manama da parte di Arabia saudita, Qatar ed Emirati arabi, mentre Marocco e Giordania non hanno ancora sciolto la riserva. Ieri il re giordano Abdallah ha ribadito che il piano di pace non può prescindere dalla realizzazione di due Stati (Israele e Palestina).

Netanyahu si è affannato a rassicurare Washington sulla sua volontà di non affossare il piano. A Gerusalemme ieri c’era l’inviato americano e genero di Trump, Jared Kushner, giunto nella regione per “vendere” l’Accordo del secolo. «Abbiamo discusso dei comuni sforzi per la prosperità, la sicurezza e la pace e sono tremendamente incoraggiato da quanto ho sentito su come il presidente (Usa) stia lavorando per unire insieme i suoi alleati nella regione», ha detto Netanyahu che poi ha sminuito l’accaduto.

«Abbiamo avuto un piccolo evento la scorsa notte (mercoledì), questo non ci fermerà», ha aggiunto mostrandosi rassicurante accanto a Kushner. Ma vari commentatori israeliani sottolineano come la crisi politica rischi di affossare il piano Trump ancora prima che sia presentato.

«Fino a non molti anni fa queste crisi politiche laceranti erano causate (indirettamente) dai palestinesi, da un piano di pace da realizzare e negoziati da avviare con gli arabi. Oggi non è più così. I palestinesi non interessano più agli israeliani. Le vicende interne sono molto più importanti dei rapporti con i palestinesi», spiegava ieri al manifesto, analista e docente di scienze politiche Eitan Gilboa. Solo qualche anno fa, ha aggiunto, era impensabile che un fallimento politico di tale portata potesse essere legato a uno scontro su quali segmenti della popolazione debbano prestare servizio di leva.

E invece l’ex ministro della difesa e laicista Avigdor Lieberman ha deciso di passare alla storia di Israele richiedendo, contro la posizione delle altre formazioni di destra, che tutti i giovani, senza eccezioni, delle comunità ultraortodosse (haredi) facciano il servizio militare come tutti gli altri cittadini israeliani. Un’intransigenza che gli altri potenziali partner di governo non gli hanno perdonato. Una valanga di accuse ieri si è abbattuta su Lieberman responsabile, a detta di alcuni, di aver messo in atto una vendetta per colpire Netanyahu e costringerlo a farsi da parte.

In ogni caso per il premier il futuro prossimo si presenta con molte incertezze. Contava, grazie al successo elettorale del 9 aprile, di presentarsi all’appuntamento di fine estate con il procuratore generale Mandelblit da una posizione di forza.

Con le elezioni anticipate cambia tutto. Le incertezze sull’esito del voto sono ampie e Netanyahu dovrà stare attento agli agguati che tenteranno proprio i suoi alleati di governo. Dietro le quinte ci sono gli arabo israeliani, che confidano nel nuovo voto per presentarsi uniti come nel 2015.