La situazione ora si complica: dopo tutto il pasticcio avvenuto nei giorni scorsi, con gli attacchi informatici alla Sony Pictures, di cui è stata accusata, pur senza prove, la Corea del Nord, Obama aveva promesso una sorta di risposta all’atto di «vandalismo informatico».

La Corea aveva risposto: «Vi attaccheremo», nel consueto delirio di onnipotenza un po’ grottesco di Kim jong-un. Minacce a tutto il territorio nazionale americano, come se da Pyongyang ne avessero le forze. Ma Kim sa bene l’importanza degli immaginari, in Occidente. E a questo punto che succede? Lunedì, Pyongyang per nove ore è rimasta senza internet.

Un problema probabilmente per pochi, ma pur sempre un evento. Le autorità coreane hanno subito diramato un comunicato che annunciava futuri lavori di manutenzione alla rete, ma nessuno ha creduto alla propaganda coreana. Dopo nove ore, tutto è tornato alla normalità, senza che nessuno spiegasse niente.

E infine ieri sera l’annuncio: la rete sarebbe di nuovo caduta. Salvo riprendersi, durante la stesura di questo articolo, dopo neanche un’ora. In tutto questo costante gioco di annunci, la fonte – particolare interessante – è sempre americana: sono gli americani (una società specializzata in reti informatiche) a dire al mondo lo stato del web e della connessione coreana, controllata e gestita dalla China Unicom.

La Cina – da parte sua – è silente. Non ha risposto agli Usa quando hanno chiesto aiuto, nel gioco dei paradossi (la richiesta di aiuto americana a Pechino, arrivò dopo la richiesta della Corea del Nord di un’indagine comune con Washington sugli attacchi alla Sony), se non dicendo qualcosa di banale e ovvio contro la cyberwar e non si è espressa ufficialmente sulla questione del film The Interview, ultimo oggetto del contendere, supposto, tra Corea e Usa.

A proposito, per i complottisti del marketing spinto, altrimenti detto guerrilla marketing, ecco una potenziale rivincita: a quanto annunciato ieri, il film The Interview potrebbe essere infine trasmesso nei cinema americani, il giorno di Natale, il 25 dicembre. E con questa premessa pubblicitaria gratuita di migliaia di articoli, servizi televisivi in tutte le lingue del mondo, è chiaro che al di là della qualità del film, sarà un successo per forza. Il botteghino riparerà le ansie, le cazziate di Obama e il soldi persi dalla Sony dopo la debacle informatica, sicuro.

Ma tutto questo non dissipa i dubbi di tutta questa storia. Al di là dell’inesistenza delle prove contro la Corea del Nord, che pur sostenendo la bontà delle minacce al film, si è detta estranea agli attacchi, ora c’è da capire se il black out di internet è la riposta americana allo scompiglio portato dalla decisione della Sony di ritirare il film.

Gli Usa non hanno rivendicato, ma se fossero loro dietro il black out della rete coreana, potremmo dire di aver raggiunto un livello quasi ridicolo di scontro, di screzi tra adolescenti in preda a crisi ormonali, in cui per altro nessuno rivendica alcunché, perché gli americani si sono ben guardati da dichiararsi dietro la chiusura della rete per Kim e i pochi privilegiati che in Corea del Nord possono navigare liberamente (la maggior parte della popolazione che ha un personal computer può navigare nella intranet locale, composta da siti ufficiali e informazioni controllate, senza poter «uscire»).

E infine c’è da capire anche la questione delle minacce alle centrali nucleari sudcoreane dei giorni scorsi, evento che allarga ancora di più il quadro, senza che venga chiarito tutto l’insieme. Secondo quanto appreso, infatti, i server della Korea Hydro and Nuclear Power Co. che gestisce le centrali nucleari di Seul, sarebbero stati attaccati a livello informatico. Nessuna accusa diretta, in questo caso, ai vicini nord coreani, ma è chiaro che la cyberwar potrebbe essere entrata in una nuova fase, anche in Asia.