Dove abbiamo già visto i giovani che si muovono tra le macerie cercando nuovi punti di riferimento? nei film delle nouvelle vagues dei paesi dell’est, Chybulski nella sua fuga da ogni prospettiva futura, oppure uno Skolimowski ventenne che corre da un punto all’altro della città, «uono nuovo» ritagliato contro i muri o perfino i ragazzi del free cinema inglese che, più organizzati trasportavano letti di ferro per le strade nei loro traslochi anche mentali. Ma I Resti di Bisanzio di Carlo Michele Schirinzi, unico film italiano in concorso, non lascia speranza, terra bruciata come in un dopoguerra eterno. Il regista è stato scelto più volte dal festival di Pesaro, a lui è stata dedicata una personale nel 2005 e per realizzare questo lungometraggio ha impiegato un numero considerevole di anni, artista indipendente e che tale vuole restare. In occasione del festival ci sarà anche una mostra dei suoi lavori fotografici e tre video sul tema del naufragio (Notturno stenopeico premiato a Torino nel 2009, Prospettiva in fuga, Suite Jonadriatica): «Dopo l’Accademia ho iniziato con i lavori fotografici finché non ho scoperto il video e mi sono dedicato solo a quello. La mia tecnica è prendere i negativi e graffiando con delle lame tutta l’emulsione lasciare solo le figure umane. Quando stampo il negativo, il risultato sono queste figure grottesche (i miei padri sono Jarry, Becket) all’interno dello spazio bianco. Un po’ riprende la tecnica di Brackhage, ma parte dal mio discorso sull’iconoclastia bizantina. Infatti la tecnica l’ho ribattezzata «iconoclastia su(al)negativo».
Iconoclastia però significa cancellare le figure, invece tu lasci solo quelle.
Ma le figure sono graffiate, in parte monche perché grattando vengono via anche gli arti, pezzi di volti. Sono sospese nel bianco spermatico. Sembrano dei bassorilievi romanici.
DDDDMi hai preceduto nel chiederti se sei influenzato dall’underground, anche se l’underground tende più all’astratto.
RRRRIo non tendo all’astratto. Ho iniziato a realizzare questi lavori durante l’ultimo anno d’Accademia (1999), già conoscevo Brakhage ma la tecnica che utilizzo deriva direttamente dall’azione iconoclasta che si diffuse nell’Impero Bizantino. C’è molta più influenza letteraria come l’Ubu Re, Cervantes, Becket e anche il Carmelo Bene più grottesco. Nella mia formazione accanto ai nomi <> compaiono Joy Division, John Belushi ed altri nomi popolari. Come stimolo e influenza hanno la stessa importanza. Alcune scene dei Resti di Bisanzio sono nate da musiche punk, quindi non c’è solo Nietzsche ma anche i Sex Pistols nelle fondamenta del film.
Nei titoli c’è scritto: musiche di Gabriele Panico
Le musiche originali sono di Gabriele Panico, in arte Larssen, con cui collaboro da alcuni anni. Ha firmato colonne sonore anche per altri cineasti come Roberto Nanni (nel cofanetto che raccoglie i suoi ultimi film ci sono le sue musiche).
Questa idea dell’iconoclastia come ti è venuta? Tu non vieni neanche dalla Grecìa
No, io sono nel Capo, a 10 Km da Santa Maria di Leuca. Quello che mi stimolò sin dall’inizio non fu tanto il discorso dell’iconoclastia (che ora è invece quello che più m’interessa) ma le icone bizantine malconservate in molti eremi delle mie zone: sin da piccolo ero attratto da questa sacralità maleodorante lasciata marcire. Quando scoprii come e da chi fossero state realizzate, iniziai ad interessarmi alla loro storia: monaci giunsero da Oriente in fuga dalla foga distruttiva dagli iconoclasti e, approdati sulle nostre terre, si rifugiarono negli eremi e dipinsero madonne…a me piace pensare che loro supplissero l’assenza della donna attraverso queste immagini che diedero vita ad una dimensione sacra privata, quasi carnale. Come nella scena del mio film dove uno dei «turisti forzati» accarezza le labbra di una Madonna affrescata mentre in sottofondo si ascolta “Venus in furs” dei Velvet Underground. In questa scena dei naufraghi scovano il viso di una donna in un luogo estraneo, malinconicamente lo accarezzano, arresi di fronte all’effimero del dipinto. Nel film non c’è comunicazione, i personaggi sono delle pedine, dei corpi senza più contatti. È un inno all’impotenza e all’impossibilità di avere un rapporto umano e sociale, amoroso, artistico. Salta la filologia e la storia a favore della vita e del vissuto, come nelle solenni visioni atemporali di Ciprì e Maresco dove tutto può essere successo o tutto potrebbe avvenire. I personaggi non hanno identità, non hanno nomi, sono C, R ed S.
Sei stato influenzato dalle nouvelle vagues dei paesi dell’est con quei personaggi spaesati che vagano tra le macerie della guerra?
Amo Skolimowski anche se mi sento più vicino a Bela Tarr dove tutto è tabula rasa. Negli occhi dei personaggi del mio film non brilla la luce della speranza, la loro espressività arriva direttamente dalle figure ieratiche di Piero Della Francesca, dai loro sguardi indifferenti che attraversano lo spettatore per dirigersi altrove, coscienti del (loro) destino inevitabile. Bela Tarr o Ciprì e Maresco non danno speranza, sono più reali del reale. In questi giorni sto rivedendo Cinico Tv, sono stati gli ultimi grandi in Italia, gli unici a documentare quello che è successo e quello che accadrà. La cosa che mi attrae in loro come in Becket, è la presa di coscienza degli umani dell’impossibilità di una rinascita o di una resurrezione e il consequenziale adattamento darwiniano ludico-amaro alla maceria. I resti di Bisanzio è punteggiato da alcuni momenti grotteschi, ma la risata è subito strozzata dalla pesantezza dei cieli o dai relitti architettonici.
Ma sotterraneamente sì, c’è tutto un mondo non espresso
Prima il film durava 120 minuti, poi ho eliminato tutte le parti che lo rendevano “cinematografico” come alcune scene ancor troppo unte di stereotipo salentino-pugliese ed alcuni dialoghi. Non avrò problemi col doppiaggio…
Perché hai messo tre anni per realizzarlo?
In realtà ho impiegato sette anni perché l’ho scritto nell’agosto del 2007, accompagnato sin dall’inizio dai coraggiosi amici di Kama, una piccola produzione legata al Nuovo Cinema Elio di Calimera che già avevano prodotto il mio “Mammaliturchi!”, dopo un anno è giunto Gianluca Arcopinto.
Tu hai cercato sempre strade alternative alle produzioni
Diciamo che non è il mio sogno stare nella morsa dell’industria cinematografica: questo film, che è un atto critico verso un certo modo di fare cinema, vuole mettere un punto ai miei discorsi sulla terra in cui vivo. Pur non essendo folkloristici o didascalici i miei lavori, a partire da “Il nido” del 2003, hanno quasi sempre trattato e maltrattato questo luogo…in realtà ho già iniziato le riprese di un nuovo lavoro su un ex molino d’inizio secolo non più funzionante ed una chiesa della Grecìa, una commissione ancora una volta sui luoghi abbandonati, tema a me caro affrontato in lavori precedenti come l’ex tabacchificio di “Eco da luogo colpito” o l’ex cinema di “Macerie dell’Arcobaleno”.
Sembra un deserto, ricorda quando negli anni ’70 i ragazzi andavano in giro in macchina nelle campagne con la musica a tutto volume…
Non sembra, è! Dipende sempre dal tipo di musica di cui si parla. Girare in auto per le campagne con lo stereo a tutto volume era un modo di sentirsi parte di un concerto in un luogo di periferia estrema dove i concerti erano rari.
Anche se nel Salento c’è stato il fenomeno dei Rave
E’ sempre una forma clandestina, nascosta, così come clandestina è l’azione del protagonista del film di raccogliere benzina per nasconderla nelle vecchie chiese abbandonate per la sua opera finale: è un piromane visionario, incapace di agire, una figura carica di rabbia implosa.
Questo film si contrappone alla movida salentina, tra taranta e dieci anni di commedie girate nel territorio
Nasce da una critica mossa a chi vuole a tutti i costi creare un’identità salentina: mai errore fu più grave e dannoso per queste terre scivolate nello stereotipo a loro insaputa, oggi preda del maltrattamento di ‘colonizzatori’ senza scrupoli. Il mio è un ritratto non della Puglia, neanche del Salento, ma del Capo, di quella striscia di 15 km che separano il mio paese da Santa Maria di Leuca. È un ritratto privato, quasi pornografico per la sua assoluta intimità: il concetto di privato non è solo una concezione etica ma anche linguistica, espresso nell’utilizzo asfissiante del primo e del primissimo piano, delle inquadrature strette, dei dettagli inermi che spesso fanno saltare il regolare processo di lettura delle immagini, penso alle scene del protagonista nella sua casa, al mancato rapporto con la famiglia, in particolare alla scena della rabbia di C censurata da un pugno che stringe sulla sua bocca nell’osservare i genitori che dormono e al successivo respiro visivo a volo d’uccello sulle torri della costa adriatica, torri che in passato avvistavano il nemico che arrivava, mentre ora sono mute ed impassibili testimoni di cadaveri dei clandestini che approdano sulla scogliera. L’intero film parla della «soglia», del luogo di confine, del finis terrae. Per me, nel Salento ci sono stati due grandi eventi storici, l’invasione dei turchi ad Otranto nel 1480 e lo sbarco albanese del 1991, tutto il resto è storia di second’ordine: mi piace buttarla sulla patafisica e pensare che le fortificazioni d’imponenti castelli nei paesini sia stato solo un modo di sfoggiare il potere, di ‘sprecare denaro’ nella costruzione di megastrutture…perché scandalizzarsi se oggi tutti rubano? Si è sempre fatto e sempre si farà! Nel film carezzo le macerie, i luoghi abbandonati a se stessi, non solo quelli storici, ma anche le brutture architettoniche del 900 perché tutto si deposita negli occhi e nella mente formando la nostra coscienza (c’è una vecchia scuola non più in funzione, un ex stazione di servizio cadente, oltre agli eremi governati all’incuria): il fascino di questi luoghi non nasce dal gusto necrofilo perché non li considero <>, invece si battono inutilmente contro la morte, sono <>, straripanti della vitalità disperata di un corpo destinato a consumarsi. È un lavoro sul morire e non sulla morte, come affermava Carmelo Bene. Anche questi sono dei clandestini nella loro stessa esistenza, dei naufraghi, tutto il film è un naufragio e la visione deve essere un tuffo in un mare in tempesta dove inutile è ogni tipo di appiglio, in balìa delle onde.
Potremmo quindi definirlo: Il Titanic del cinema sperimentale
Ho provato a raccontare una disillusione, una disillusione umana, prima che artistica e politica. Gli eventi degli ultimi tempi hanno toccato e stanno toccando molto da vicino gli abitanti di questa regione: la catastrofe dell’I.L.V.A, la scoperta delle discariche abusive, i rifiuti interrati nei luoghi impensabili tanto decantati dal cinema ‘colonizzatore’, le cementificazioni selvagge che stanno cambiando il profilo di questo luogo nel nome dell’accecamento turistico estivo. In questo periodo storico è difficile fidarsi e credere (se c’è ancora qualcuno che lo fa), bisogna prendere una posizione chiara: sempre più spesso sogno un annullamento totale dei finanziamenti pubblici a certe attività culturali inutili e dispendiose ed un cambio di destinazione di quel denaro. Con un decimo di certi sperperi una famiglia in gravi condizioni economiche oppure con un ammalato di tumore, riesce – forse – ad affrontare più tranquillamente il suo dramma.
Tutto questo ‘abuso’ ha generato un caotico sovraffollamento di mediocrità nel campo cinematografico perché, prima ancor di scrivere, si pensa alla distribuzione e si stringono contatti con emittenti televisive che a loro volta costringono a realizzare film accessibili a tutti, il regista deve quindi pensare a mediare e di conseguenza realizzerà un prodotto mediocre, egli stesso sarà un mediocre. A tutto questo bisogna resistere, come anche all’allergica primavera del documentario sociale che sempre più spesso è succube del linguaggio da inchiesta televisiva a scapito dell’alchemica combinazione visione/ascolto. Non c’è rivoluzione, non c’è valore sociale se non si ha rispetto del pubblico assopito dai racconti e dalle storie, se il pubblico non prende prima coscienza critica di se. In questi anni di barbarie, è come se Artaud, Brakhage, Bene o Bargellini (per citarne alcuni) non fossero mai esistiti…ma a volte è meglio morti che male accompagnati!